Che cosa si può fare per superare il difficile momento economico che sta attraversando il nostro paese? E’ possibile guardare "oltre la crisi" sfruttandola come un'opportunità per modernizzare il sistema Italia? E qual è il ruolo del largo consumo? Su questo tema Indicod Ecr ha invitato a esprimersi alcuni rappresentanti della gdo organizzando il 28 gennaio, al teatro Strehler di Milano, il convegno “Oltre la crisi: modernizzare il paese. Il contributo del largo consumo”.

Il messaggio univoco che la platea di imprenditori e di manager della distribuzione moderna ha potuto cogliere, dopo tre ore nelle quali si sono succeduti presentazioni di sondaggi, interventi e dibattiti, è piuttosto deprimente ed è indice – sia pure con qualche distinguo - di una sostanziale sfiducia sulla possibilità di cambiare le cose.

Certo, non ha aiutato – ancora una volta – l’assenza dei rappresentanti del Governo. Doveva esserci il ministro Scaiola, trattenuto a Roma – si dice – per discutere con i vertici Fiat sugli urgenti finanziamenti necessari al settore auto in crisi.

Eppure – come ha sottolineato nel suo intervento il direttore generale di Indicod Ecr Bruno Aceto – il comparto del largo consumo non è proprio la cenerentola dell’economia italiana. La sola Indicod Ecr, impegnata a ridurre i costi di filiera e a ottimizzare lo scambio delle merci, rappresenta 34mila aziende del settore e 35mila punti vendita, per un totale di 1.140.000 occupati che producono il 5,3% del pil nazionale.

Ha detto bene quindi il presidente di Coop Italia Vincenzo Tassinari quando ha affermato che «la gdo è come un fuoriclasse tenuto in panchina mentre la propria squadra perde uno a zero». «Il problema – ha aggiunto – è che in Italia manca il senso di squadra, e questo è un problema culturale…»

Poco prima Renato Mannheimer, presidente dell’istituto di ricerche Ispo, presentando i risultati di un sondaggio sulla modernità (percepita soprattutto come tecnologia, ma a sorpresa anche con profondi connotati sociali, etici e di rispetto dell’ambiente) – era intervenuto proprio su questo tema. «Il nostro – aveva ammesso - è un paese individualisticamente moderno, percepito come potenzialmente capace di sviluppare modernità ma discontinuo e debole sul piano organizzativo, frenato com’è dalla burocrazia e dalla inconcludenza della classe politica».

Dello stesso avviso l’ad di Mediamarket Pierluigi Bernasconi. «Manca una visione strategica per modernizzare efficacemente il paese – ha lamentato -: senza questa e puntando su interventi di breve periodo, tutto diventa difficile». Secondo Valerio Di Natale, presidente e ad di Kraft, invece, a mancare è soprattutto «il coraggio e la capacità di fare sistema, puntando di più sul capitale umano». «È da 15 anni che si dicono sempre le stesse cose e non cambia nulla – ha stigmatizzato dal canto suo l’ad e direttore generale di Gruppo Sutter, Aldo Sutter. Forse più che di modernizzazione bisognerebbe parlare di cambiamento, sfruttando l’occasione della crisi per azzerare un po’ di cose e ripartire di nuovo».

Già, ma come ripartire? Quale ricetta adottare per superare una impasse più culturale che reale. Un contributo forse più significativo e concreto, sull’esprienza mutuata dalla Francia, ci si sarebbe aspettati da Jacques Attali, presidente di PlaNet France e coordinatore della commissione chiamata recentemente in Francia a modernizzare il settore del commercio. Attali si è mantenuto un po’ sul generale, individuando tre priorità per il cambiamento: una migliore conoscenza delle dinamiche economiche, maggiore mobilità (intesa come elevato livello di concorrenza, trasparenza, mobilità sociale) e una governance capace di fare funzionare le cose, di rendere efficiente la vita sociale del paese, di ridurre la burocrazia, di programmare il futuro per due o tre generazioni a venire.