A che punto è l’immobiliare non residenziale? Secondo la divisione Capital Markets di Cushman & Wakefield il 2017 è stato, in Italia, il quinto anno consecutivo a registrare un incremento dei volumi di investimento, raggiungendo circa 11,3 miliardi di euro (+18% su base annua) e superando i valori record fatti segnare nel periodo precedente la crisi finanziaria (10,8 miliardi nel 2007).

Se a tirare la volata sono stati soprattutto gli uffici (+17% e circa 40% del totale) e la logistica, anche il retail real estate si è difeso bene e ha continuato a costituire una componente fondamentale (circa il 20% nel 2017). Tuttavia, ha mostrato segnali di flessione (-11% su base annua) con particolare riferimento alla tipologia centri commerciali.

Il segmento high street si è confermato, invece, ancora un successo, coprendo circa il 50% del volume totale degli investimenti retail.

Certamente l’Italia ha ancora ampie capacità di sviluppo, quando si pensa a shopping center e retail park, ed è ben lontana dall’essere interessata dai fenomeni di crisi che hanno colpito soprattutto i centri commerciali americani. Negli Usa, secondo un’analisi di Georgia Institute of Technology, ben 1.200 grandi complessi, circa un terzo del totale, sarebbero a rischio di chiusura.

Francesco Della Cioppa, Head of Asset Services Italy di C&W, ci spiega i motivi della vitalità del mercato dei centri commerciali in Italia: “Se vogliamo fare una comparazione con le altre nazioni europee, scopriamo che il nostro Paese è al 23° posto in Europa per quanto riguarda la densità di mq commerciali per 1.000 abitanti. La media continentale è di 297 mq e quella nazionale di 229, il che non significa che il nostro non sia un mercato maturo. Semplicemente la Gdo - che altrove si è affermata a partire dal Secondo dopoguerra – da noi si è sviluppata dalla fine degli anni Settanta. Inoltre il 40% dei nostri centri commerciali è compresa ancora nella fascia sotto i 20.000 mq di Gla e un altro 40% va da 20.000 e 40.000 mq. Gli shopping center italiani, promossi per lungo tempo dalla Dmo, si sono spesso scontrati con una politica non favorevole allo sviluppo nei tessuti urbani. In sostanza è un mercato che, fino a 10-15 anni fa ha sempre offerto ‘prodotti’ ripetitivi. Tutto questo ha portato l’Italia a essere un mercato meno maturo di altri e che, proprio per questo, ha ancora grandi margini per fare diversificazione e innovazione. In sostanza il Paese ha molto da offrire agli investitori”.

Il prodotto standard, piccolo o medio, con una grande ancora alimentare è superato? “Per molti versi sì – spiega Della Cioppa – e questo ha aperto occasioni per chi, a vario titolo, si cimenta con un nuovo progetto. Le grandi città sono state mappate capillarmente con superfici alimentari fra 400 e 4.000 mq, il che ha contribuito a sottrarre utenti agli ipermercati. E infatti oggi, nei centri commerciali e retail park, sono le medie superfici specializzate a essere uno dei maggiori poli di attrazione. In altre parole, la componente shopping prevale su quella della spesa alimentare e la cosiddetta ‘locomotiva’, quando è ancora presente, come nella maggior parte dei casi, si è fortemente ridotta in termini dimensionali”.

L’ingresso degli shopping center nei nuclei urbani è per l’Italia un fatto piuttosto nuovo. Perché tanto ritardo? “Per vent’anni – spiega l’interlocutore – sono stati mappati i piccoli Comuni, perché nei grandi, per molteplici motivi, non era possibile costruire. Però ci sono vaste aree dismesse e dunque si è creata un’opportunità non solo per il retail, ma anche per il terziario in generale. Lo sviluppo di progetti che riguardano interi quartieri cittadini, con uffici e lotti abitativi, ha naturalmente anche bisogno di una componente retail, il che contribuisce alla diversificazione dell’offerta commerciale”.

Possiamo dire che in questo momento in Italia premia di più il centro commerciale di grandi dimensioni? “Tutto dipende dal contesto. L’offerta e la domanda rimangono molto segmentate, anche se non si può dimenticare che il nostro mercato è fragile, soprattutto a causa dell’eccessivo numero di shopping center di piccole o piccolissime dimensioni. Se i centri di grandi dimensioni hanno quasi sempre un impatto positivo, va detto che complessi di dimensioni medio-piccole, in contesti caratterizzati da una politica commerciale conservativa e da nuclei urbani non grandi, possono essere ancora molto vitali”, proprio perché non aggredibili da centri commerciali di grandi dimensioni.

In questi anni, nell’immobiliare commerciale, sono state più importanti le nuove aperture, o i processi di ristrutturazione? “Direi entrambi. Certo le nuove aperture sono state più ‘visibili’ in quanto hanno riguardato specialmente shopping center innovativi e di ampio respiro, come “Il Centro” di Arese (oltre 90.000 mq) o “Elnòs Shopping” di Roncadelle (Bs) con i suoi 88.000 mq. In simili ambienti l’esperienza di shopping ha una qualità talmente elevata da saltare all’occhio. Ma altrettanto rilevante è stato il refurbishment di Oriocenter che, circa un anno fa, è salito a 105.000 mq e 280 negozi, con l’apertura di una nuova ala. Hanno fatto meno notizia, ma sono comunque indicative, le riorganizzazioni di molte food-court, zone che oggi motivano un numero crescente di visite. Questo perché gli shopping center, nell’accezione più moderna, diventano centri di aggregazione in cui lo shopping, la ristorazione, il divertimento entrano in sinergia fra loro, rendendo più gratificante e più lunga la visita”.