I regolari scontri fra Ikea e le nostre amministrazioni locali in fatto di nuove aperture non hanno evidentemente scoraggiato il colosso svedese dalla voglia di investire sull’Italia.

Ieri, con una manovra a sorpresa, il big del mobile, o per meglio dire la sua centrale di acquisti, ha detto no ai fornitori asiatici, e ha anteposto il made in Italy, specie quello dell’area piemontese. Sono state scelte 24 imprese nazionali per fabbricare una gamma che va dagli accessori bagno, ai mobili, dai giochi ai complementi di arredo.

Il motivo della scelta dipende da vari elementi. Intanto la Penisola era già uno dei principali fornitori del gruppo, dopo la Polonia e la Repubblica Popolare, tanto che la stessa Ikea aveva sempre dichiarato di acquistare da noi più di quanto non vendesse.

Inoltre, nei Paesi emergenti, il costo del lavoro non è più vantaggioso come un tempo, visto che in Cina il livello dei salari ha messo a segno, in tre anni, un +20%. Ci sono poi elementi di carattere logistico e ambientale: un conto è usare come piattaforma una nazione che occupa in Europa una posizione praticamente centrale, e un conto è fare arrivare i beni da migliaia e migliaia di chilometri di distanza. I costi sono evidentementi diversi, come diverso è l’impatto ecologico, comparando una tratta relativemente breve (scarsi consumi di carburanti ed energia), con una molto lunga. Si aggiunga poi la qualità del made in Italy, decisamente superiore.

Nel Bel Paese, dove l’insegna ha chiuso il 2011, con 46 milioni di visitarori, si fabbricano già – particolarmente nel Veneto - un terzo delle cucine vendute da Ikea a livello mondiale, tanto per fare un esempio.

La svolta del gruppo creerà 2.500 nuovi posti di lavoro, che, sommati agli addetti ai punti di vendita e alla catena logistica (6.600) formeranno un esercito di 11.000 persone in divisa gialla e blu.