Nel lontano 1920 Zefferino Monini seguendo il suo istinto e intuendo le proprie capacità organizzative, ha dato vita a Spoleto, in Umbria, ad una società commerciale in generi alimentari che dopo dieci anni ha deciso di concentrare l'attenzione esclusivamente sull'olio extravergine di oliva. Oggi Monini è una delle poche aziende italiane del settore rimaste a conduzione familiare. Abbiamo chiesto all’Amministratore Delegato Zefferino Monini di svelarci il segreto della loro longevità.

Come si è chiuso il 2011 per la vostra azienda?

Considerando il panorama generale posso dire che abbiamo concluso il 2011 positivamente: è stato un anno difficile, soprattutto per momenti speculativi di mercato e non per difficoltà di sviluppo dei consumi, visto che il settore dell’olio extravergine di oliva ha registrato un segno positivo, seppur piccolo. I problemi maggiori sono derivati da alcune speculazioni sulle materie prime e per noi che prestiamo attenzione alla qualità e alla selezione questo ha comportato alcune difficoltà. Tuttavia posso affermare che abbiamo chiuso il 2011 positivamente sia nei volumi sia nei risultati ottenuti dalle nostre attività.

Qualche dato relativo al fatturato e alle vendite?


Le nostre attività sono molto legate alle materie prime, quindi se queste diminuiscono – e spesso accade anche del 20/25% - aumentare i volumi di vendita è difficile. Il fatturato è cresciuto leggermente rispetto all’anno scorso: abbiamo registrato, infatti, un incremento di circa otto milioni di euro sui 125 milioni con cui si è concluso il 2010. Il risultato più importante, però, è l’aumento della produzione a litri del 5%, ottenuto nonostante la riduzione di alcune materie prime.

Quanto ha inciso la crisi economica sulle aziende del vostro settore?

La crisi ha sicuramente inciso in maniera importante sul mercato dell’olio, caratterizzato per l’80% dall’olio extravergine di oliva e per il restante 20% da olio di oliva normale (18%) e da olio di sansa e di oliva (2%). Per quanto riguarda l’olio extravergine, in particolare, esso ha mantenuto i propri volumi grazie alla stabilità del prezzo e alla sua genuinità, fattori che hanno aiutato il prodotto a crescere sul mercato, nonostante il settore sia sofferente di redditività per una maggiore compressione del valore della referenza.

Monini è una delle poche aziende italiane del settore rimaste a conduzione familiare: qual è il segreto della vostra longevità?

Sicuramente ciò che caratterizza la nostra azienda sono la continuità e la passione: vivere e lavorare da sempre con tutta la famiglia in una piccola città come Spoleto, dove tutti ti conoscono, ci ha portato a essere appassionati, attenti e responsabili verso una cosa che non appartiene solo all’ambito familiare, ma all’intero territorio. A questo aggiungerei anche una buona capacità di interpretare i cambiamenti del mercato degli ultimi 25 anni e di dare così all’azienda una forza e un impulso sempre nuovi, convincendoci a continuare nel tempo.

In Italia l’importazione di olio di oliva straniero ha raggiunto il massimo storico, superando anche la produzione nazionale che, tra l’altro, ha registrato in calo nel 2011: è un dato allarmante per il made in Italy?

L’Italia, purtroppo, come Paese produttore è stata un po’ troppo ferma negli ultimi anni e non ha realizzato investimenti: un atteggiamento che non ha permesso di ottenere un incremento nella quantità di produzione. Si è verificata una vera e propria mancanza culturale che riflette la dimensione di chi produce olio sul territorio: ci sono troppi piccoli produttori e quelli più grandi sono generalmente latifondisti del Meridione che non investono nella propria attività, ma negli immobili. L’Italia, quindi, da primo Paese produttore è passato alla seconda/terza posizione: nonostante questo, dobbiamo continuare a dar valore alle nostre qualità, per far sì che il prodotto italiano sia davvero il migliore sui mercati. Il problema è che per farlo bisogna proteggere la referenza, soprattutto nelle esportazioni dove i controlli sono più difficoltosi: bisognerà, dunque, strutturarsi per creare un prodotto certificato garantito e ricontrollabile anche all’estero.

Il decreto sulle liberalizzazioni, e in particolare l’articolo 62, sta procurando un notevole mal di pancia alle principali catene della grande distribuzione. Oltre a prevedere l’obbligo di contratti scritti, la norma stabilisce un termine perentorio per i pagamenti nei contratti di cessione dei prodotti agricoli e alimentari: 30 giorni per i deperibili e 60 per tutti gli altri. Secondo lei questo potrà causare dei problemi nei rapporti tra aziende produttrici e fornitori?

Il vero problema secondo me è che chi aveva dato delle dilazioni maggiori dovrà scontare alla distribuzione questa differenza. Di certo si saprà che quando uno dovrà fare un conto economico, si baserà sul denaro disponibile e quindi su quanto può produrre verso l’esterno, ottenendo poi – ce lo auguriamo - un rientro sicuro entro quei giorni.

Come mai la grande distribuzione fa spesso ricorso alla promozionalità relativa all’olio, svendendo di fatto il prodotto?

Purtroppo capita spesso di trovare l’olio a un prezzo inferiore ai tre euro, con un inevitabile abbassamento del valore del prodotto in bottiglia. La distribuzione, dal canto suo, ci rimette perché l’olio extravergine di oliva in Italia è talmente importante nel paniere della spesa a basso costo che rimane sempre una quantità svenduta. Si parte dunque da un olio qualitativamente medio-basso e da lì, dovendo offrire il miglior prezzo, si continua scendere: è quindi normale trovare un olio dalla qualità piuttosto scadente a 2,50 euro. A partire dai tre euro ci sono invece oli di qualità medio-alta che però non rendono giustizia al prodotto qualitativamente migliore, il cui prezzo oscilla tra i sei e i dodici euro. Esistono poi anche bottiglie da 25-30 euro, ma in realtà esse non esprimono un valore così superiore rispetto a quelle da quattro euro, anzi a volte hanno qualcosa in meno. Il problema, infatti, è che se una referenza è particolarmente cara, gira meno a scaffale perché le persone che la comprano sono poche: l’olio è un prodotto che si deteriora nel tempo e lasciandolo in bottiglia per mesi su uno scaffale tende inevitabilmente a rovinarsi. Spesso, quindi, chi compra olio a 18-20 euro, rischia di prendere un prodotto più scadente, rispetto a uno che vale la metà ma che è molto più fresco.

Non temete che un prezzo eccessivamente basso possa essere associato dal consumatore a una qualità troppo scadente, con ripercussioni negative sugli acquisti?

Teoricamente sì, anche se nel fare la spesa i consumatori comprano spesso l’olio in promozione. A questo riguardo abbiamo fatto alcune indagini fuori dai supermercati: la maggior parte delle persone prima di entrare affermano che il prezzo giusto per l’olio si aggira sui cinque-sei euro, ma una volta uscite hanno nel carrello la bottiglia da tre euro. Questo accadeva già qualche anno fa, prima della crisi e testimonia quanto la grande distribuzione forzi la mano su questo prodotto, sapendo che esso è particolarmente sensibile agli occhi del consumatore e strumentalizzandolo come richiamo nei supermercati. Ovviamente per fare certe promozioni si sceglie un olio di minor valore: la distribuzione non può certo svendere un prodotto da sette euro a 2,99 euro.

Parliamo invece di private label. In alcuni Paesi, ad esempio la Spagna, si registra un significativo trend di crescita per l'olio d'oliva. Com’è la situazione in Italia?

Nel settore dell’olio non c’è una grande crescita, perché la distribuzione è portata a svendere il prodotto delle marche che spesso risultano essere meno care della private label. Essa, in Italia, ha una quota di mercato del 13% ormai da dieci anni: una situazione di stallo che riguarda ogni marca, sempre presa ad abbassare i prezzi per aver perdite minori. Questo, però, comporta un generale stato di sofferenza, caratterizzato da un prodotto di medio-bassa qualità.

Alla luce del suddetto scenario, quali sono le strategie di marketing che porterete avanti nel 2012?

Torneremo a investire sui canali tradizionali con una nuova campagna, perché siamo convinti che la pubblicità e la comunicazione siano indispensabili per garantire un valore all’intero settore: parlare e raccontare qualcosa di un prodotto, porta sicuramente vantaggio a tutta la categoria di cui fa parte, attirando l’attenzione del consumatore e diffondendo anche una maggior cultura. Ci impegneremo, dunque, nel realizzare nuovi investimenti con la consapevolezza che saremo praticamente gli unici a farlo, a testimonianza del fatto che il settore soffre: l’augurio che ci facciamo è che tutti arrivino a un bisogno di ricreare valore e marginalità sul prodotto per ridargli la giusta dignità. Speriamo, dunque, che in futuro anche altre aziende torneranno a investire nella pubblicità per dare visibilità al settore e dare al consumatore una cultura del prodotto che altrimenti sarebbe difficile diffondere.


Stefania Lorusso