Dal 10 al 13 maggio Parma è diventata la capitale mondiale del food made in Italy. Vi si è svolto infatti Cibus, il salone internazionale dell’alimentazione giunto alla sua 15° edizione. Si tratta di un appuntamento importante per l’intero settore alimentare. Come dimostrano gli oltre 2.500 espositori e i 60mila visitatori professionali  (di cui 7.000 operatori esteri provenienti da 110 paesi).

L’edizione 2008
di Cibus non lasciava ancora prevedere l’imminente crisi dei consumi che da lì a pochi mesi si sarebbe manifestata in tutta la sua virulenza. Quella 2010 non si svolge in uno scenario economico ancora del tutto normalizzato, ma certo non più turbolento come quello che ha caratterizzato il 2009. L’industria alimentare italiana, grazie alle sue doti anticicliche, ha saputo peraltro reagire molto meglio di altri settori dell’economia nazionale alla crisi.

A fronte di un fatturato generale dell’industria italiana che ha accusato un calo di oltre cinque punti percentuali, quello dell’industria alimentare ha chiuso lo scorso anno sostanzialmente invariata. Certo, questa è la media. E non si può dire che anche le aziende che hanno sofferto di meno non si siano mosse con prudenza. Ma c’è stato e c’è, comunque, movimento. Crescente. Secondo Ismea, gli acquisti domestici dei prodotti agroalimentari nel primo trimestre di quest’anno sono aumentati del 1,1% rispetto a quelli effettuati nello stesso periodo dell’anno scorso, con tassi anche a due cifre per alcuni prodotti a maggiore valore aggiunto e a maggior contenuto di servizio.

Il problema semmai è la negativa dinamica dei prezzi, che vede, a fronte di un incremento dei volumi, una riduzione dei fatturati. Ecco allora che l’export e l’internazionalizzazione, già di per sé fattori critici di successo per qualsiasi azienda, diventano ancora più fondamentali in un tale contesto. Ed ecco quindi che un appuntamento come quello di Parma, terza fiera al mondo nel food, ma prima per il made in Italy, può risultare una vetrina preziosa. C’è però un “però”. Benvengano tutti i Cibus di questo mondo. Ma in assenza di interventi di sostegno dell’export strutturali e coordinati l’industria alimentare (secondo comparto produttivo del paese, con 120 miliardi di euro di fatturato, dei quali una ventina rappresentati proprio dall’export, e fiore all’occhiello della produzione italiana a livello internazionale) non potrà mai veramente fiorire e prosperare.

Qualcosa
, in termini di iniziative “sistemiche”, si fa, ma è molto poco. Ben altri risultati le aziende italiane potrebbero conseguire, sul fronte delle esportazioni, in presenza di una strategia comune e integrata di promozione e sostegno del food made in Italy. Esportando, oltre ai prodotti, anche la cultura alimentare del Belpaese. Così come ben altri risultati si potrebbero raggiungere al cospetto di più efficaci misure per contrastare i diffusi fenomeni di italian sounding e di contraffazione delle eccellenze agroalimentari nazionali, al fine di poter competere ad armi pari con i paesi concorrenti.