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La green economy fa la differenza anche sugli scaffali

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La green economy fa la differenza anche sugli scaffali

La green economy fa la differenza anche sugli scaffali

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Fabio Massi

La green economy è una leva emergente per la ripresa: questa l’assunto dimostrato dall’ultima edizione di Ecomondo (3-6 novembre) e dai saloni svoltisi in contemporanea (Key Energy, Key Wind, Key Energy White Evolution, H2R Mobility for Sustainability ecc.

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I numeri della quattro giorni riminese dimostrano che il Sistema Italia è sensibile al messaggio: 1.200 espositori e più di 100.000 mq di area, 200 seminari, 1.000 relatori, 103.514 visitatori professionali (+1,68% sul 2014), con una componente estera di 11.000 operatori e 500 buyer.

Di grande interesse la quarta edizione degli Stati Generali della Green Economy, che ha delineato, attraverso una relazione di oltre 80 pagine - realizzata da Ecomondo e da Fondazione per lo sviluppo sostenibile e curata da Edo Ronchi - l’orientamento degli operatori sul fronte dell’impegno ambientale.

Due le tipologie di aziende analizzate: core green - le società che producono beni o servizi di alto valore ecologico - e go green, cioè operanti in settori diversi, ma che incorporano l’eco-attenzione nello svolgimento della propria attività.

Il 27,5% del totale delle imprese in Italia è core green, con una punta del 40,6% in agricoltura e del 35,4% nell’industria. Le core green hanno una presenza significativa (12,8%) anche nell’aggregato commercio, alberghi e ristorazione. Le go green invece sono il 14,5% del totale, con un’incidenza pari al 16,7% nella categoria “commercio, alberghi e ristorazione”.

“In questo macro settore – sottolinea il rapporto - vi sono presenze significative di imprese a indirizzo green, con l’insieme delle core green e go green che raggiunge il 29,5 per cento”.

Le società in verde presentano incrementi del giro d’affari e dell’export più marcati rispetto alla media. “Nel 2014 le imprese che hanno registrato un aumento del fatturato – si legge nel documento - sono il 21,7% di quelle core green e il 22,1 % di quelle go green, a fronte del 10,2% registrato per le altre.

“L’indagine conferma un dato noto: le esportazioni di un Paese industriale maturo competono con quelle dei Paesi di nuova industrializzazione e in via di sviluppo con produzioni di maggiore qualità.

La qualità ambientale è ormai il driver principale della qualità di molti prodotti e di molte produzioni. Per questo le imprese core green che esportano sono ben il 19,8%, quelle go green addirittura il 26,5% a fronte di un 12% delle altre”.

“Per una ripresa economica solida – argomenta la Relazione - non basta l’export, serve un mercato interno robusto; ma senza un forte export non c’è Paese che possa avere una solida economia. Lo sviluppo delle imprese green risponde a tutte e due le condizioni della ripresa: una migliore qualità del benessere e del mercato interno e una buona capacità di esportazione”.

Per quanto riguarda il commercio al dettaglio si osserva che solo una piccola parte delle imprese verdi rientra nel segmento core green: secondo i criteri adottati dalla ricerca si tratta di insegne e negozi che vendono prodotti biologici e/o coperti da Ecolabel.

Più realistico, per il retail, è l’orientamento go green, che prevede la rispondenza a una serie di criteri, fra i quali: puntare sulla qualità ambientale come fattore distintivo, avere realizzato negli ultimi 3 anni almeno un investimento finalizzato al miglioramento ambientale dell’attività, adottare misure di raccolta differenziata e riciclo dei rifiuti, promuovere il risparmio energetico e la mobilità sostenibile per il personale, disporre di una certificazione ambientale, redigere un rapporto annuale di rendicontazione delle performance ambientali, effettuare un bilancio annuale degli impatti ambientali…

Rientra nell’ottica della riduzione dei rifiuti anche il tema, caldissimo, specie dopo Expo Milano, della lotta allo spreco alimentare. Alcune stime, ormai piuttosto datate (2012) elaborate da Politecnico di Milano, Fondazione Sussidiarietà e Nielsen, dicono che la Gdo è responsabile di una parte abbastanza limitata del triste fenomeno: l’11,6% contro il 41,6% attribuito ai consumatori.

Il nostro retail, negli ultimi anni, si è impegnato su questo fronte, ma la buona volontà si è scontrata con un vuoto normativo che, per fortuna, sta per essere colmato.

E’ stata infatti presentata, dai deputati Pd Maria Chiara Gadda e Massimo Fiorio, una proposta di legge che ha, come principale obiettivo, proprio di “incentivare il circuito del riuso, della cessione gratuita in primo luogo del cibo, e di promuovere un modello di consumo e di produzione sostenibili, agendo sul lato della domanda così come dell’offerta”.

Secondo la Fondazione Banco Alimentare con leggi ad hoc si riuscirebbero a ricavare donazioni pari a 2 miliardi di euro di alimenti e a raddoppiarne il volume, da 500.000 tonnellate a 1 milione.

Oggi sono ben 5,1 milioni le tonnellate di cibo che diventano spazzatura, equivalenti a un potenziale di vendita di 13 miliardi di euro. La parte preponderante, osserva il Banco Alimentare, potrebbe essere recuperata se non fosse che attualmente, per le imprese, la donazione è ancora complicata e costosa, al punto da rendere più vantaggioso lo smaltimento puro e semplice.


Per saperne di più scarica la "Relazione sullo stato della green economy in Italia"

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