Francesco Mutti: si fa presto a dire eccellenza
Francesco Mutti: si fa presto a dire eccellenza
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L’alimentare nazionale guarda al prossimo trimestre con forti preoccupazioni.
Lo evidenzia il Rapporto “L’industria alimentare italiana oltre il Covid-19” realizzato da Nomisma per Centromarca e Ibc e pubblicato da Egea.
Per effetto delle dinamiche innescate dal lockdown (tra cui il sostanziale blocco dell’Horeca, i cui consumi valgono il 34% del totale food&beverage) e delle incertezze legate all’evoluzione dell’emergenza sanitaria, solo il 20% delle aziende prevede, nel 2020, un incremento del fatturato italiano ed estero. Per il 15% i ricavi saranno allineati con quelli dello scorso anno, mentre, per il 62%, il consuntivo prossimo venturo si chiuderà con una contrazione delle vendite, contrazione anche inferiore ai quindici punti secondo il 38% degli imprenditori.
La ricerca fotografa gli effetti del lockdown su un settore industriale di rilevanza strategica, che contribuisce in modo importante al sostegno dell’economia nazionale e che - alla luce della propria anticiclicità - si rivela indispensabile nei momenti di crisi, con l’industria che genera il 20% del valore aggiunto della filiera alimentare. Fra il 2008 e il 2019 tale valore aggiunto è cresciuto del 19% (mentre la manifattura nel suo insieme si è fermata al 7%); l’occupazione del 2% a fronte di una riduzione del 13% dello stesso manifatturiero.
In dieci anni (2009-2019) le esportazioni a valore sono aumentate dell’89%: “Dovrebbe fare riflettere che un settore, spesso portato a esempio di eccellenza, sia riuscito a crescere, nonostante l’assenza di un reale disegno di politica economica che consentisse alle aziende di irrobustirsi, rinnovarsi e quindi di esprimere pienamente il loro potenziale competitivo - nota Francesco Mutti, presidente di Centromarca -. Ora gli effetti dell’emergenza coronavirus si aggiungono alle criticità esistenti e diventa improrogabile il varo di un piano pluriennale che consenta al comparto di sostenere la crisi e concentrarsi”.
L’importanza dell’industria di trasformazione alimentare si è confermata nei primi 7 mesi di quest’anno. In uno dei momenti più difficili nella storia dell’economia nazionale, le vendite al dettaglio di prodotti alimentari hanno fatto segnare un +3,3% sul corrispondente, rispetto al -17,6% degli altri beni.
Anche dal lato export il periodo evidenzia un risultato cumulato ancora positivo per il made in Italy (+3,5%) a fronte di un crollo di tutte le esportazioni, pari al 14%, sebbene aprile e maggio abbiano registrato cali sensibili (rispettivamente -1 e -12).
“Le diverse modalità adottate a livello mondiale, nei tempi e nell’applicazione del lockdown, hanno determinato performance molto diversificate dei flussi, penalizzando, in special modo, tutto il business legato al canale Horeca - sottolinea Denis Pantini, responsabile agroalimentare di Nomisma e curatore del Rapporto -. Si spiegano così, per esempio, il -4% nell’export di vino e, all’opposto, il +25% della pasta italiana o il -7,8% dell’export alimentare francese contro il +2,7% di quello spagnolo”.
L’indagine, che ha coinvolto 200 imprese del food&beverage italiano, ha evidenziato che il 42% degli esportatori lamenta comunque una contrazione sui mercati esteri e che il 35% delle aziende teme, per il futuro, una perdita di posizionamento dei propri prodotti a causa di un maggiore protagonismo dei concorrenti locali.
Negli investimenti vince la prudenza. Prima dell’emergenza l’82% degli operatori industriali del food ne aveva pianificati in abbondanza, ma ora la carenza di liquidità, la difficoltà di accesso al credito e la congiuntura negativa spingono il 38% a rimodularli e il 31% a rinviarli. Il rimanente 31% prevede di mantenerli, destinandoli in particolare all’acquisto di impianti e macchinari funzionali al ciclo produttivo (86%), di nuove tecnologie (46%) e a ricerca e sviluppo (39%).
Il Rapporto fotografa, anche, un comparto polverizzato, costituito essenzialmente da imprese di piccole dimensioni, che affrontano con difficoltà il mercato globale. Meno di 8.000 aziende su 56.000 hanno più di nove addetti. Mancano strategie di branding, piani per l’internazionalizzazione, progetti per l’integrazione delle tecnologie digitali. “Per l’industria alimentare la priorità è crescere dimensionalmente, senza perdere quelle caratteristiche di qualità che fanno la differenza sul piano competitivo - afferma Alessandro d’Este, presidente di Ibc -. Lo conferma il fatto che 49 realtà produttive, con un giro d’affari di superiore ai 350 milioni di euro, sviluppano il 36% del fatturato del settore, il 52% dell’export, il 34% del valore aggiunto e concentrano il 23% degli occupati”.
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