di Maria Teresa Giannini

Un anno di grandi soddisfazioni, il 2021, per Coal (ex Dit). La cooperativa, nata nel 1961 ad Ancona, vanta più di 300 punti vendita dislocati in 6 regioni (Marche, Abruzzo, Umbria, Lazio, Molise, Emilia-Romagna) e a San Marino e ha visto il rientro, lo scorso ottobre, in gruppo VeGè. L’azienda marchigiana si è consolidata negli anni, arrivando a chiudere il bilancio 2020 con un fatturato alle casse di 560 milioni di euro, con una crescita complessiva del 15,1%: un incremento dovuto anche a un importante piano di sviluppo e di rilancio delle strategie commerciali, come spiega il direttore generale Alessandro Buoso.

Avete presentato un bilancio in grande salute….

I nostri numeri sono molto positivi, è vero. Ciò è sicuramente legato al fatto che siamo una cooperativa, un’impresa dove il concetto di “affiliazione” è il motore del business. Sembra che oggi questa formula consenta di gestire al meglio i negozi e fare sviluppo nel retail, tanto che sempre più insegne si stanno muovendo in tal senso.

Perché in questo momento, in particolare per voi, il franchising è così importante?

In Coal lavoriamo in una logica di franchising (o affiliazione commerciale), cioè in massima parte non gestiamo direttamente i negozi, perché ci piace lavorare con piccoli imprenditori, che mettono il loro know how e la loro passione e li spingiamo a diventare soci. L’associazione, del resto, è la massima espressione dell’affiliazione e Coal la rende una caratteristica, non solo in chiave di impatto economico, ma anche decisionale: i soci partecipano attivamente alla gestione e alla vita della cooperativa perché hanno ruoli all’interno dell’azienda e perché, attraverso i comitati, si inseriscono nei suoi aspetti organizzativi più importanti, contribuendo a disegnarne le strategie. Premesso questo, abbiamo anche un piccolo numero di negozi gestiti direttamente, per testare un nuovo tipo di commercio che vada al di là della mera vendita di prodotti e che, invece, offra un carnet di servizi.

Cioè?

Penso che oggi la differenza fondamentale fra un classico Ce.Di. e un Ce.Di. moderno consista nel fatto che, mentre il primo si comporta come un ingrosso, il secondo è interessato alla gestione del brand, alla creazione di elementi che lo distinguano e allo sviluppo del prodotto a marchio. Noi abbiamo optato per questo secondo modello – lo dimostrano i concept store come èccoMi e Il buongustaio –, soprattutto per mettere mano a nuovi progetti che portino il retail nel futuro.

Quali sono i vostri principali progetti?

Vogliamo ripensare il posizionamento del retail mainstream e questo desiderio ci ha spinto a cambiare centrale: avevamo bisogno di riprenderci la nostra autonomia decisionale al 100 per cento. Stiamo lavorando a una trasformazione copernicana del Ce.Di.: non sarà più – come dicevo - un mero polo logistico, ma un polo produttivo, come stiamo sperimentando nella sede che abbiamo a Mosciano Sant’Angelo (Teramo). Abbiamo poi intrapreso un grande progetto accanto alla sede storica di Camerano, in provincia di Ancona: lì sono stati già acquistati 5 ettari di terra dove, in un campus molto particolare (all’interno di un supermercato) formeremo gli imprenditori alimentari del domani. Il caporeparto diventerà “personal shopper” cioè un consulente di acquisto, non avremo più “help desk” ma “social desk”. Del resto, se pensiamo di parlare agli imprenditori delle nuove generazioni con una mentalità vecchia, faticheremo a interessarli a intraprendere questo mestiere. In più, oggi, i consumatori hanno mediamente maggiori conoscenze, capacità e velocità nell’informarsi, dunque i bisogni cambiano più rapidamente.

E per le Mdd?

Nell’ambito del prodotto a marchio, vogliamo portare avanti un progetto di territorialità, che può essere locale o nazionale, purché abbia un’identità forte. Per realizzare questo obiettivo siamo disposti anche a investire margine. Inoltre, vorremmo lavorare a linee premium e creare un brand legato alle filiere certificate, soprattutto nell’ambito dei freschissimi come ortofrutta, salumi, formaggi e carni, in modo che a prodotto e produttore sia riconosciuta una sorta di carta d’identità in base a criteri di sostenibilità. Infine, vorremmo proporre, agli imprenditori del commercio alimentare, una serie di concept store per le periferie e per i centri storici, lavorando sull’idea di “vicinato” che costituisce una leva di engagement non da poco con i consumatori.

E, in cifre?

Il prodotto a marchio ha un’incidenza che varia dal 12% al 15%, una quota che letta in assoluto non sembra consistente, ma lo è nel caso di negozi come i nostri, con una dimensione media di 400-500 mq (dunque medio-piccoli), nei quali una quota anche solo doppia (30%) rischierebbe di non avere appeal per il nostro consumatore. Oggi avere un marchio proprio è ciò che consente una strategia customizzata a seconda dei territori: non possiamo pensare che un unico modello sia adeguato a tutte le zone del Paese.

Franchisee coincide con socio?

Il nostro contratto di base è quello di socio, sì.

Attualmente avete tanti soci piccoli o pochi soci grandi?

Rispondo con i numeri: su un totale di 330 negozi (di cui 80 di proprietà e 16 a gestione diretta) abbiamo 270 soci. Si tratta spesso, dunque, di piccoli imprenditori che ricevono da noi in gestione il negozio. Negli anni, se lo desiderano, essi hanno anche la possibilità di comprarsi la licenza e l’immobile.

Parliamo di format. Ci sono alcuni marchi che state potenziando….

Siamo passati da un concetto di multinsegna e multibrand a un concetto di monoinsegna e monobrand, con una differenziazione per formato. Prima avevamo Coal, Sigma…vari marchi, e ognuno di questi aveva le proprie Mdd, con un concetto promiscuo fra retail e discount. Poi abbiamo capito che era complicatissimo “fare di tutto un po’” e abbiamo portato tutti questi progetti verso l’insegna Coal, attraverso una declinazione, meno classica, non per superficie, ma per servizio. Per esempio, in Coal Il buongustaio ci sono solo alimentari e di qualità, mentre invece, per offrire una proposta conveniente, alternativa al discount, abbiamo creato l’insegna èccoMi – il supermercato che non c’è. In quest’ultimo caso abbiamo disposto un’area all’ingresso dedicata al concetto di “in -out” permanente, in cui la merce è gestita non in ottica promozionale una tantum, ma in maniera continuativa: sui beni che soddisfano bisogni essenziali, il consumatore trova marchi che offrono prezzi del 50% inferiori rispetto ai marchi leader del mercato.

Siete presenti in zone in cui il turismo è molto importante, come le Marche. In questi ultimi due anni difficili per quel settore ne avete sofferto oppure, tutto sommato, la clientela locale ha compensato?

Per noi giugno, luglio e agosto sono i tre mesi più importanti dell’anno subito dopo dicembre. Sebbene ci sia stato un flusso turistico maggiore di matrice italiana, abbiamo risentito del Covid, tuttavia in misura minima rispetto al vicino Abruzzo. Il nostro è stato uno strano destino: abbiamo cominciato il rinnovamento dei punti vendita poco prima della pandemia; perciò, il consumatore ci ha scoperto forzatamente perché la mobilità era ridotta, ma molti di loro sono rimasti nostri clienti. Così, mentre i competitor sono cresciuti del 6 o 7%, noi del 15 per cento. La clientela occasionale, rappresentata dai turisti, è per noi un plus: ciò che cerchiamo di rafforzare è il nostro appeal presso il cliente continuativo.

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