Assica, Associazione industriali delle carni e dei salumi, aderente a Confindustria rappresenta attualmente circa 180 associati. Nel 2020 il fatturato del settore rappresentato dall’organismo di categoria è stato di 8.237 milioni di euro, con una flessione in valore del 3,3%, dovuta, inutile dirlo, all’emergenza sanitaria. Abbiamo chiesto a Davide Calderone, direttore di Assica, di fare il punto sugli andamenti più recenti di quello che è uno dei comparti chiave dell’alimentare italiano.

Partiamo dal 2020. Cosa è successo?

Come in molti altri comparti si è verificato un importante aumento delle vendite nella distribuzione moderna e in quella tradizionale e di vicinato e un deciso calo nel fuori casa. Nelle prime fasi il contraccolpo è stato notevole, specie per quelle imprese che operano da molto nel food service. Poi l’allarme si è assopito: in estate, infatti, la ristorazione ha potuto riaprire i battenti, grazie al ritorno a una parvenza di normalità. Nel frattempo, comunque, le aziende hanno saputo riconvertire le proprie strategie distributive e mettere a profitto la rincorsa delle vendite al dettaglio. A segnare gli incrementi maggiori sono stati i preaffettati e confezionati in genere, rispetto ai prodotti al taglio, che vengono, per forza di cose, maneggiati dagli operatori del banco salumeria, un luogo dove il consumatore avrebbe, fra l’altro, dovuto affrontare lunghe code per avere un alimento che dura molto meno nel frigo di casa. Insomma, il sistema ha retto, come si vede dai dati, testimoni di una perdita contenuta.

E l’export?

Se parliamo del 2020 c’è stato un consistente calo in volume (-7,2%), ma un lieve aumento in valore (+2,5%). Anche qui, in sostanza, i danni sono stati limitati, anche se in alcuni grandi mercati, come gli Stati Uniti, la serrata dell’Horeca è stata davvero pesante. Ricordo che, oltre confine, c’è una minore abitudine al consumo domestico di prodotti di salumeria e dunque compensare è più arduo.

Oggi la pandemia ha allentato la morsa. Come si muove il vostro business?

Sul mercato interno il 2021 è partito molto molto bene in termini di produzione e consumi, con un ritorno del banco taglio ai livelli ante Covid e una tenuta dei confezionati. Nei primi 6 mesi dell’anno abbiamo registrato poi un rilancio dell’export, a doppia cifra sia a volume, sia a valore (+16,3% e +12,9% rispettivamente). Se un effetto rimbalzo era comunque atteso e logico, i livelli esportativi, una volta confrontati con il 2019, confermano un’avanzata reale, nell’ordine dei quattro punti percentuali a volume e molto più consistente a valore. Il mercato Usa, fa addirittura segnare, sul 2020, un 65,9% a volume e un +48% a valore. E l’incremento interessa tutte le categorie, a partire dal prosciutto crudo, che è il più esportato, essendo uno dei nostri alimenti più caratteristici. Bene anche per il cotto, la pancetta, il salame, la mortadella, che sono ancora un po’ di nicchia, ma decisamente dinamici e che, una volta sommati, hanno un ‘peso specifico’ non indifferente sui flussi in uscita, di circa il 30 per cento.

Altri fattori positivi?

Molto positiva, anche se in atto da prima della pandemia, è la riscoperta, o la scoperta tout court, dei moltissimi prodotti legati alla tradizione regionale, un fatto che si somma alle innovazioni di prodotto lanciate dall’industria di trasformazione. Questo insieme tiene alta l’attenzione e la curiosità del consumatore, tanto alta che, secondo una recentissima ricerca di Iri per Assica, nel solo canale supermercati e ipermercati le vendite hanno fatto registrare, nei primi nove mesi, un +4,1 per cento, dunque sopra la media dell’alimentare fresco. E, parlando di tradizione, non si può non osservare che, sempre questa fonte, attesta il ruolo di primo piano dei prodotti a denominazione d’origine – un 25% del fatturato di settore – i quali presentano un aumento del 9,6%, con 6,5% di quota di mercato a valore nel mass market. Sono andamenti che, oggi, traggono forza anche dal ritorno alla convivialità e alla dimensione sociale.

È stato peggio il Covid, o il lungo periodo dei dazi?

Il Covid sicuramente, anche perché la pandemia ha causato uno stress finanziario improvviso ad aziende che avevano in magazzino abbondanti scorte, prodotte con largo anticipo. L’emergenza sanitaria ha creato un blocco della domanda repentino, mentre i dazi sono più graduali, più ‘annunciati’, più prevedibili. Del resto, nel nostro settore, i dazi Usa hanno risparmiato il prodotto più esportato, il prosciutto crudo, colpendo piuttosto il salame e la mortadella, che avevano consumi in crescita, ma cifre decisamente più piccole. La mortadella poi, sul mercato degli States, si scontra con un problema ben più grave, ossia la concorrenza di un prodotto imitativo e piuttosto scadente, chiamato ‘Boloni’ o ‘Bologna’. Certamente un livello impositivo straordinario del 25% ha danneggiato gli esportatori, ma, ripeto, l’impatto è stato più soft e, per fortuna, ora andiamo verso un quinquennio di tregua commerciale.

Dunque, tutto risolto?

Tutto risolto si fa per dire, visto che ora stanno salendo in modo allarmante i costi accessori legati al rincaro delle materie prime, un fatto che investe soprattutto l’energia, il packaging e la logistica, mentre la carne suina non è aumentata più di tanto. Se nel 2019 la peste suina ha decimato gli allevamenti cinesi, che hanno richiamato dall’estero ingenti quantitativi di materia prima, creando un rialzo generale dei prezzi, il fenomeno è rientrato, sia per il sovrapporsi del Covid, che ha rallentato gli scambi commerciali, sia per la ricostituzione, da parte degli allevatori orientali, del proprio patrimonio zootecnico. In seguito, il manifestarsi del morbo anche nell’Europa dell’Est e centrale, ha fatto sì che parte del prodotto del nostro continente restasse sul mercato interno, abbassando il costo di questo bene. La suinicoltura italiana poi è particolare: il suino pesante italiano è la materia prima per i prodotti a denominazione di origine. Dunque, ha logiche tutte sue, che risentono meno delle fluttuazioni internazionali. In questo momento il prezzo del suino nazionale è un prezzo medio e non grava più di tanto sulla catena del valore o, per lo meno, non preoccupa come altre materie prime, accessorie sì, ma comunque indispensabili. Ci sono, però, importanti eccezioni, come per esempio i prezzi delle cosce fresche per la produzione di prosciutti Dop, che si mantengono elevati.

Cosa la rende più soddisfatto?

L’elemento rassicurante, la vera nota lieta, è la forte crescita dell’export, una grande promessa di oggi e di domani. La sinergia fra associazione, aziende, Istituzioni (Ministeri della Salute, degli Esteri, ambasciate e Ice Agenzia in particolare), aprirà non solo nuovi Paesi, ma nuovi mercati a prodotti di salumeria ancora poco esportati. È un processo che comporta comunque una certa pazienza, visto che questi beni, come gli altri alimenti a base di carne, sono sottoposti a rigidi controlli sanitari, controlli che peraltro non spaventano gli italiani, dotati di sistemi di verifica molto progrediti e circostanziati.

Concludiamo con le sfide per il futuro…

Le sfide sono tante, ma la principale è quella della sostenibilità, per dare una risposta il più possibile netta ai continui attacchi sul potenziale inquinante della zootecnia. Reagendo a questa minaccia con decisione, come i trasformatori hanno reagito alla presunta incompatibilità fra i salumi e la dieta leggera, possiamo creare un sistema di comunicazione efficiente e instaurare un dialogo con gli stakeholder. Avremo così il modo di dire, finalmente, che la nostra zootecnia ha dato il via, da tempo, a varie azioni positive. Cito solo lo sfruttamento del biogas e degli scarti agricoli per la produzione di carburanti e la cogenerazione attraverso i rifiuti di macellazione. Assica, grazie a Ivsi, il suo braccio promozionale, può aiutare le aziende nella transizione, portando un vantaggio a un settore composto in larga parte da Pmi, quelle più bisognose di un saldo appoggio.

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