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Private label a rischio di omologazione?
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Private label a rischio di omologazione?
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Marche commerciali alla ribalta…anche delle cronache, visto che questa settimana, mercoledì 15 e giovedì 16 gennaio, si rinnova il consueto appuntamento con “Marca By Bolognafiere”, l’unica mostra-convegno “in cui la distribuzione moderna espone”, come recita lo slogan. br />
Nel carrello della spesa degli italiani, spiega Adm (Associazione distribuzione moderna) continuano ad aumentare i prodotti a marca del distributore rispetto a quelli degli altri marchi. Nel 2013 infatti sono cresciute del 4,4% le vendite di prodotti a marca privata, raggiungendo una quota di mercato del 18,4%, un trend che rimane costantemente positivo dal 1999 a oggi.
La percezione del consumatore rispetto al prodotto a marchio del distributore, continua l’associazione, è ormai simile a quella di una vera “marca”, che porta valori propri, che affiancano e completano nel carrello delle famiglie l’offerta rappresentata dai grandi brand industriali nazionali e internazionali. Un risultato determinato da un ottimo rapporto qualità/prezzo, che mette questi beni in condizione di soddisfare pienamente i bisogni di una famiglia costretta a prestare sempre più attenzione al proprio potere d’acquisto.
Entro il 2025, a livello mondiale, la marca commerciale raddoppierà la sua quota di mercato arrivando a una penetrazione media del 50%. Secondo le previsioni effettuate da Euromonitor insieme a Plma e Rabobank, in questo percorso a farne le spese saranno soprattutto i marchi industriali minori, mentre i marchi industriali leader reggeranno il confronto.
La “vicinanza” tra la marca commerciale e la marca industriale non si esprime ormai solo sul fronte della qualità, ma anche del prezzo: il posizionamento del prodotto a marchio appare meno distante rispetto a quello dei prodotti di marca industriale, secondo quanto emerge dal monitoraggio che Iri effettua periodicamente su un paniere di 17 prodotti di largo consumo in 7 Paesi europei più gli Stati Uniti (oltre agli Usa vengono considerati Germania, Grecia, Spagna, Francia, Gran Bretagna, Olanda, Italia).
Il differenziale si sta riducendo in seguito al processo di innovazione adottato dai retailer che è sfociato nel lancio di nuove referenze premium ovvero nel rinnovamento delle linee già esistenti. Non mancano certamente all’Italia e all’estero foltissime gamme di pl ad alto o altissimo valore aggiunto, attive in segmenti che erano in precedenza un pascolo esclusivo dell’industria: dalla cosmesi agli alimenti biologici e tipici, dai detersivi al senza glutine, senza dimenticare il vino, la birra, gli integratori vitaminici, i surgelati ad alto contenuto di servizio e i piatti pronti. Non esiste praticamente alcun segmento del largo consumo fresco e confezionato ormai al riparo. E il 2013 ha fatto segnare l’ingresso in forze, almeno nelle nazioni ad alto sviluppo come Francia e Gran Bretagna, nel business delle tecnologie: dai telefonini proposti da Fnac e Quechua Decathlon, ai tablet Tesco, senza dimenticare gli e-reader di Carrefour.
Dall’altro lato, l’avvicinamento delle scale prezzi può essere in parte spiegato anche dalla pressione promozionale, che si mantiene sempre piuttosto alta e che riguarda, in misura maggiore, le marche industriali, le quali dunque investono di più e rinunciano a una parte più consistente dei propri margini.
A sostenere le pl ci sono, sempre secondo Nielsen, l’innovazione (+5% di referenze nel 2012) e l’impiego più forte della leva promozionale (nel 2012 le vendite in promozione rappresentavano il 20,8%, rispetto al 19,2% del 2011). In questo quadro anche il consumatore ha giocato un ruolo cruciale, mostrando una sempre maggiore propensione all’acquisto dei prodotti a marchio. In particolare il 27,3% della crescita della private label è ascrivibile a un impulso spontaneo della domanda, indipendente da altri fattori di marketing.
In ogni caso, dai diversi indicatori, si capisce che esiste un rischio abbastanza preciso insito nel ciclo di vita delle private label, ossia quello dell’omologazione, della sovrapposizione con il concetto di “marca” in senso lato, e dunque la perdita di quel vissuto di prodotto economico che sarà anche poco qualificante, ma in tempi di recessione è abbastanza utile, per non dire indispensabile. In effetti si stanno creando due fasce anche nelle pl: una premium o superpremium, costituita da prodotti – con diverso grado di valore aggiunto - delle grandi insegne, e quella dei discount e primi prezzi (anche qui bisognerebbe distinguere tra articoli di base e non). Mentre la prima potrebbe, alla lunga, vivere una contrazione, la seconda è – perdurando la crisi - destinata allo sviluppo.
E questo per motivi che sono sotto gli occhi di tutti. Una recentissima rilevazione di Unimpresa (associazione delle microimprese e delle pmi), condotta su un campione rappresentativo dei suoi 18.000 esercizi commerciali associati, ribadisce – se ce ne fosse bisogno - che la recessione non è certo finita e la spesa low cost ha continuato a crescere per tutto il 2013. Tre italiani su 5 hanno provato almeno una volta i discount nel corso dell’anno. La recessione ha radicalmente alterato le abitudini al supermercato: gli italiani fanno economia e così lo scorso anno sono cresciuti del 72%, rispetto al 2012, gli acquisti di offerte speciali.
Lo studio conferma e mette in luce una tendenza in atto da tempo, peraltro già rilevata negli ultimi due anni dall'associazione. L'attenzione alle offerte speciali porta i consumatori a fare una vera e propria "incetta" di beni a basso costo: i nostri connazionali sono diventati super esperti dei volantini e nelle buste della spesa finisce solo quanto è proposto in offerta, mentre restano sugli scaffali dei supermercati e dei piccoli negozi tutti gli altri prodotti.
Insomma se in molte categorie e in alcune insegne il marchio del distributore sembra avere un potenziale di crescita inesauribile, tanto da raggiungere quote da leder (anche intorno al 25%) alle sue spalle si va rafforzando, complice la crisi, un competitor non certo giovane, ma non per questo poco agguerrito: il vecchio primo prezzo, quello con un packaging spartano e senza altro argomento di marketing se non la convenienza proposta a un livello di qualità tutto sommato accettabile.
Nel carrello della spesa degli italiani, spiega Adm (Associazione distribuzione moderna) continuano ad aumentare i prodotti a marca del distributore rispetto a quelli degli altri marchi. Nel 2013 infatti sono cresciute del 4,4% le vendite di prodotti a marca privata, raggiungendo una quota di mercato del 18,4%, un trend che rimane costantemente positivo dal 1999 a oggi.
La percezione del consumatore rispetto al prodotto a marchio del distributore, continua l’associazione, è ormai simile a quella di una vera “marca”, che porta valori propri, che affiancano e completano nel carrello delle famiglie l’offerta rappresentata dai grandi brand industriali nazionali e internazionali. Un risultato determinato da un ottimo rapporto qualità/prezzo, che mette questi beni in condizione di soddisfare pienamente i bisogni di una famiglia costretta a prestare sempre più attenzione al proprio potere d’acquisto.
Entro il 2025, a livello mondiale, la marca commerciale raddoppierà la sua quota di mercato arrivando a una penetrazione media del 50%. Secondo le previsioni effettuate da Euromonitor insieme a Plma e Rabobank, in questo percorso a farne le spese saranno soprattutto i marchi industriali minori, mentre i marchi industriali leader reggeranno il confronto.
La “vicinanza” tra la marca commerciale e la marca industriale non si esprime ormai solo sul fronte della qualità, ma anche del prezzo: il posizionamento del prodotto a marchio appare meno distante rispetto a quello dei prodotti di marca industriale, secondo quanto emerge dal monitoraggio che Iri effettua periodicamente su un paniere di 17 prodotti di largo consumo in 7 Paesi europei più gli Stati Uniti (oltre agli Usa vengono considerati Germania, Grecia, Spagna, Francia, Gran Bretagna, Olanda, Italia).
Il differenziale si sta riducendo in seguito al processo di innovazione adottato dai retailer che è sfociato nel lancio di nuove referenze premium ovvero nel rinnovamento delle linee già esistenti. Non mancano certamente all’Italia e all’estero foltissime gamme di pl ad alto o altissimo valore aggiunto, attive in segmenti che erano in precedenza un pascolo esclusivo dell’industria: dalla cosmesi agli alimenti biologici e tipici, dai detersivi al senza glutine, senza dimenticare il vino, la birra, gli integratori vitaminici, i surgelati ad alto contenuto di servizio e i piatti pronti. Non esiste praticamente alcun segmento del largo consumo fresco e confezionato ormai al riparo. E il 2013 ha fatto segnare l’ingresso in forze, almeno nelle nazioni ad alto sviluppo come Francia e Gran Bretagna, nel business delle tecnologie: dai telefonini proposti da Fnac e Quechua Decathlon, ai tablet Tesco, senza dimenticare gli e-reader di Carrefour.
Dall’altro lato, l’avvicinamento delle scale prezzi può essere in parte spiegato anche dalla pressione promozionale, che si mantiene sempre piuttosto alta e che riguarda, in misura maggiore, le marche industriali, le quali dunque investono di più e rinunciano a una parte più consistente dei propri margini.
A sostenere le pl ci sono, sempre secondo Nielsen, l’innovazione (+5% di referenze nel 2012) e l’impiego più forte della leva promozionale (nel 2012 le vendite in promozione rappresentavano il 20,8%, rispetto al 19,2% del 2011). In questo quadro anche il consumatore ha giocato un ruolo cruciale, mostrando una sempre maggiore propensione all’acquisto dei prodotti a marchio. In particolare il 27,3% della crescita della private label è ascrivibile a un impulso spontaneo della domanda, indipendente da altri fattori di marketing.
In ogni caso, dai diversi indicatori, si capisce che esiste un rischio abbastanza preciso insito nel ciclo di vita delle private label, ossia quello dell’omologazione, della sovrapposizione con il concetto di “marca” in senso lato, e dunque la perdita di quel vissuto di prodotto economico che sarà anche poco qualificante, ma in tempi di recessione è abbastanza utile, per non dire indispensabile. In effetti si stanno creando due fasce anche nelle pl: una premium o superpremium, costituita da prodotti – con diverso grado di valore aggiunto - delle grandi insegne, e quella dei discount e primi prezzi (anche qui bisognerebbe distinguere tra articoli di base e non). Mentre la prima potrebbe, alla lunga, vivere una contrazione, la seconda è – perdurando la crisi - destinata allo sviluppo.
E questo per motivi che sono sotto gli occhi di tutti. Una recentissima rilevazione di Unimpresa (associazione delle microimprese e delle pmi), condotta su un campione rappresentativo dei suoi 18.000 esercizi commerciali associati, ribadisce – se ce ne fosse bisogno - che la recessione non è certo finita e la spesa low cost ha continuato a crescere per tutto il 2013. Tre italiani su 5 hanno provato almeno una volta i discount nel corso dell’anno. La recessione ha radicalmente alterato le abitudini al supermercato: gli italiani fanno economia e così lo scorso anno sono cresciuti del 72%, rispetto al 2012, gli acquisti di offerte speciali.
Lo studio conferma e mette in luce una tendenza in atto da tempo, peraltro già rilevata negli ultimi due anni dall'associazione. L'attenzione alle offerte speciali porta i consumatori a fare una vera e propria "incetta" di beni a basso costo: i nostri connazionali sono diventati super esperti dei volantini e nelle buste della spesa finisce solo quanto è proposto in offerta, mentre restano sugli scaffali dei supermercati e dei piccoli negozi tutti gli altri prodotti.
Insomma se in molte categorie e in alcune insegne il marchio del distributore sembra avere un potenziale di crescita inesauribile, tanto da raggiungere quote da leder (anche intorno al 25%) alle sue spalle si va rafforzando, complice la crisi, un competitor non certo giovane, ma non per questo poco agguerrito: il vecchio primo prezzo, quello con un packaging spartano e senza altro argomento di marketing se non la convenienza proposta a un livello di qualità tutto sommato accettabile.
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