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Perché le riaperture sono un percorso quasi obbligato

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Perché le riaperture sono un percorso quasi obbligato

Perché le riaperture sono un percorso quasi obbligato

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Fabio Massi

Si profila la riapertura di cinema, teatri, piscine, palestre, centri commerciali nei week end, anche se molto dipende dalla Cabina di regia, di lunedì 17, che esaminerà i dati del contagio relativi alla settimana conclusa venerdì 14.

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Se è vero che la campagna vaccinale avanza e i contagi calano, il Governo non ha comunque molta scelta, viste le cronache del dopo bomba. Sul versante lavorativo il sentiment, rilevato ad aprile dalla Fondazione studi consulenti del lavoro (fonte: “Gli italiani e il lavoro dopo la grande emergenza”) è improntato a stanchezza e pessimismo, atteggiamento che non potrebbe che peggiorare creando ulteriori rischi per il lavoro.

Guardando al passato prossimo si scopre che più della metà (56,7%) dei nostri connazionali indica l’aumento dello stress e della fatica come il fattore che più ha caratterizzato la vita professionale nell’ultimo anno e solo il 14,3% si dichiara pronto a ripartire.

Sempre a metà aprile c’erano 1,8 milioni di occupati che, di fatto, non lavoravano, perché interessati da sospensioni di attività, o cassa integrazione e circa 1 milione, tra dipendenti e autonomi, era convinto di perdere il posto nei mesi che verranno (620.000 dipendenti e 400.000 autonomi) e questo anche perché, il blocco dei licenziamenti non potrà durare in eterno, anche se i sindacati hanno chiesto una proroga: dalla fine di giugno al 31 ottobre. E infatti sono 2,6 milioni gli italiani che attendono lo sblocco con grande e giustificatissima ansia.

In questo scenario, più che investire sul proprio futuro professionale, anche attraverso nuovi obiettivi di formazione, la maggioranza si preoccupa di salvaguardare il proprio posto (32,4%) e di recuperare una dimensione di vita e di lavoro 'più sostenibile' rispetto all’anno appena passato (28,8%).

E poi ci sono quei 7,5 milioni di occupati che segnalano una riduzione del reddito, più o meno consistente.

Recovery plan: qui lo Stato ha ottenuto dall’Ue l’approvazione di uno stanziamento record, di 248 miliardi di euro. Ma gli italiani hanno paura lo stesso, e, secondo uno studio Accredia-Censis temono sprechi, corruzione e dirottamenti di fondi da parte della burocrazia e delle prevedili lobby.

Più in dettaglio: il 75,5% degli italiani paventa che, dalla pressione a spendere in fretta, possa derivare una riduzione dei controlli, spianando la strada all’illegalità. Il 56,4% sostiene che le risorse vanno spese velocemente, ma verificando il rispetto delle regole, per evitare, come detto, sprechi e corruzione. Per il 30,4% servono controlli ferrei da parte della Pubblica amministrazione, anche a costo di rallentare le procedure, mentre solo per il 6,5% bisogna azzerare del tutto i controlli per impiegare le risorse con la massima celerità.

Non è finita: il 66,6% è spaventato dalle troppe leggi e regolamenti cui attenersi, che potrebbero rallentare l’impiego delle risorse, il 65,7% ha paura che non ci siano garanzie sul fatto che quelli approvati siano i progetti migliori, mentre il 65% delinea possibili riversamenti di capitali pubblici su questioni non prioritarie, con una scarsa ricaduta sulle economie locali e sulla qualità della vita.

È vero che gli italiani sono stati scottati dai troppi scandali, in primis dalla Tangentopoli degli anni Ottanta, ma è altrettanto vero che molti episodi meno macroscopici, ma ugualmente deprecabili, non hanno contribuito a ridurre un generalizzato atteggiamento di diffidenza o a scongiurare le letture complottiste.

Consumi: non c’è bisogno di avere una laurea in economia per dire che le cose non vanno bene. La domande chiave – che al momento non possono avere risposte – sono però due: quanto sarà ampio e quanto durerà il trend riflessivo?

Secondo l’Istat nel 2020 gli italiani sono tornati ai livelli di domanda del 1997 e la spesa finale interna è collassata del 12,3 per cento. Facendo i calcoli a prezzi costanti si è tornati indietro di 24 anni.

Se il dopo è ancora tutto da scrivere ci dovrebbero essere, con la riapertura, due atteggiamenti che, per quanto opposti, sono destinati a convivere, almeno fra le classi medie: revenge spending, per qualche mese e grazie all’accumulo di risparmio, e tendenza a conservare gli stessi risparmi, almeno considerando la forte incertezza sul futuro lavorativo.

Bankitalia, nel rapporto “I conti economici e finanziari durante la crisi sanitaria del Covid-19”, ha calcolato che nel primo semestre del 2020 i redditi privati non finanziari hanno registrato la contrazione più forte degli ultimi 20 anni, con una flessione dell’8,8% rispetto ai primi sei mesi del 2019. Visto che però i consumi hanno perso il 9,8%, il risparmio netto dalle famiglie è salito, per motivi prudenziali e contingenti (chi può uscire pochissimo spende molto meno) fino a 51,6 miliardi con un ritmo che è più che triplicato rispetto alla fine del 2019: da 2,8 a 9,2 per cento.

Italiani più ricchi, insomma, ma solo per merito proprio. Chi vorrà erodere il proprio conto corrente senza avere garanzie sul futuro? E del resto, come rimettere in moto l’Italia e l’Europa con consumi scarsi o scarsissimi? Un vero dilemma ‘uovo gallina’.

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