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Il vino italiano alla prova dei mercati internazionali

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Il vino italiano alla prova dei mercati internazionali

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Redazione

Aumentano del 25% gli espositori e salgono le delegazioni internazionali selezionate da 58 Paesi, con una media di operatori professionali provenienti ogni anno da 140 Stati.

Con cifre eclatanti apre oggi, 15 aprile, il 52° Vinitaly a Verona Fiere. Aumenta anche, in modo costante, l'offerta green con tre aree (ViVit, VinitalyBio e Fivi) e prosegue il collegamento con il territorio grazie a ‘Vinitaly and the City’, il fuori salone dedicato agli amanti del vino nella città di Verona e, da quest'anno, in tre suggestivi borghi della provincia: Bardolino, Soave e Valeggio sul Mincio.

La kermesse si presenta come un unicum espositivo grazie alla contemporaneità di Sol&Agrifood - salone internazionale dell'agroalimentare di qualità e rassegna interattiva che attraverso cooking show, spazi didattici e molte degustazioni valorizza in chiave business le peculiarità dell'agroalimentare e l'olio extravergine d'oliva in particolare - e di Enolitech, dedicato alla tecnologia applicata alle filiere vinicola e oleicola.

Il tutto accompagnato, naturalmente, da una generosa proposta di convegni, di eventi formativi, di degustazioni e proposte dei grandi chef.

Anche nel 2018 Vinitaly presenta dati e riflessioni in abbondanza. Spicca la collaborazione con Wine Monitor di Nomisma, che ha portato all'outlook sul futuro dei mercati target per il vino e a un focus specifico riservato agli Usa, al quale seguiranno approfondimenti su Cina, Russia, Giappone, Regno Unito e Germania.

Il settore continua a presentare cifre fondamentali nel nostro agroalimentare. Nel 2017, secondo Ismea, l’Italia ha mantenuto il primato produttivo internazionale. Nonostante un’annata particolarmente difficile, caratterizzata da una molteplicità di eventi climatici avversi, i 42,5 milioni di ettolitri prodotti hanno permesso al Paese di posizionarsi prima dei principali competitor, cioè Francia e Spagna.

La struttura italiana di settore conta 310.000 aziende agricole e circa 46.000 aziende vinificatrici. Negli ultimi anni si è assistito a un processo di concentrazione sia a livello agricolo, con una superficie media aziendale che supera ormai i 2 ettari, sia nella trasformazione, dove un 50% circa è da attribuire al sistema cooperativo.

La produzione italiana conta su un panorama di 526 riconoscimenti comunitari, 408 Dop e 118 Igp. Positivo è l’incremento, di anno in anno, delle produzioni certificate che, nel 2016, hanno sfiorato i 25 milioni di ettolitri (14,5 milioni di ettolitri Dop, 9,3 milioni di hl di vino Igp imbottigliato e oltre 1 milione di ettolitri di Igp esportato sfuso).

Nel 2017 la superficie a vite ha raggiunto 652.000 ettari, l’1% in più sull’anno precedente grazie alle regioni del Nord Est, Veneto e Friuli Venezia Giulia, che hanno guidato i nuovi impianti.

L’Italia è anche il secondo esportatore di vino mondiale, alle spalle della Francia, in termini di flussi in valore, e della Spagna, nei quantitativi.

Le esportazioni italiane hanno raggiunto il record storico dei 6 miliardi di euro (+6% sul 2016) con una ripresa anche nelle quantità, attestate a 21,5 milioni di ettolitri. A trainare l’export sono stati, ancora una volta, gli spumanti che, nel 2017, hanno segnato progressioni molto superiori alla media del settore (+9% a volume e +14% a valore), anche se la crescita del segmento è rallentata rispetto al passato.

Il settore vinicolo italiano ha un peso del 15% sulle esportazioni agroalimentari italiane che nel 2017 hanno superato i 41 milioni di euro in aumento del 7% sull’anno precedente.

Il fatturato dell’industria si stima intorno ai 13 miliardi (10% dell’intero agroalimentare), mentre la domanda interna, dopo anni di calo, nel 2015 ha ripreso a crescere, fino a superare i 22 milioni di ettolitri del 2016.

Un approfondimento sull’export viene dalla ricerca “Il futuro dei mercati, i mercati del futuro”, partita dagli ultimi 10 anni per prevedere come si evolveranno i consumi nei prossimi 5. La ricerca, presentata a Roma il 27 marzo e curata da Vinitaly con Wine Monitor di Nomisma, constata come, a fronte di un livello mondiale stabile (-1% nell’ultimo decennio), cambi innanzitutto la geografia dei consumi di vino: calano nei Paesi dell’Unione Europea, mentre aumentano in Nord America e in Asia, con un dato, per gli Usa, del +21% e, per la Cina, addirittura del +166.

Tuttavia, anche dove la richiesta flette in volume, si registrano crescite a valore e la salita verso gli acquisti premium si allarga, soprattutto nei principali mercati. Basti pensare che il valore delle vendite di vino nel mondo è cresciuto del 35% nel decennio 2007-2017.

Gli Stati Uniti rappresentano sempre di più il primo mercato per l’import di vino, con un valore superiore ai 5,2 miliardi di euro, mentre la Cina figura ora al quarto posto, con 2,5 miliardi di euro e, dopo avere scavalcato il Canada, già nel 2015, si prepara a subentrare alla Germania sul podio mondiale, dopo gli States e il Regno Unito (nel 2017 la distanza fra cinesi e tedeschi è stata di appena 34 milioni di euro).

A livello complessivo l’export di vino dall’Italia è cresciuto nel decennio del 69%, spostandosi dai bacini di prossimità - oggi l’Ue pesa per il 51% contro il 59% di 10 anni fa – ai Paesi terzi.

Nello stesso tempo è variato anche il portafoglio prodotti: se nel 2000 l’esportazione di vino sfuso pesava per il 50% sul totale dei quantitativi venduti oltre frontiera, nel 2017 questa tipologia è scesa al 26 per cento.

Tuttavia l’Italia risulta oggi il principale fornitore solo in 16 mercati mondiali, contro i 29 presidiati dalla Francia. Nel Sud del mondo e in Cina il nostro peso risulta ancora marginale, con una quota inferiore al 10% dell’import.

Le motivazioni del ritardo – secondo Nomisma – risalgono intanto alla nota frammentazione e ridotta dimensione delle nostre imprese vitivinicole rispetto a quelle dei top player mondiali. Forti di un livello nazionale di consumi di vino tra i più alti al mondo, le società italiane hanno vissuto l’export prima come un ripiego (per smaltire eccedenze produttive) e, solo dopo, come una necessità.

Al contrario, Australia, Cile e Nuova Zelanda, in mancanza di un mercato interno solido, hanno pianificato strategie commerciali volte prioritariamente all’export, tanto da essere arrivati a vendere oggi oltre frontiera il 94% (Cile), l’81% (Nuova Zelanda) e il 59% (Australia) della produzione.

Incidono inoltre pesantemente le barriere, tariffarie e non. La leadership detenuta dal Cile nei mercati dell’America Meridionale, nonché la crescita delle esportazioni in Cina, è principalmente frutto di accordi di libero scambio. A titolo di esempio si pensi che, nella Repubblica Popolare, il vino cileno entra a dazio zero (a fronte di un 14% pagato dall’Italia) e nel corso di 5 anni la quota di mercato del Paese sudamericano è passata dal 9 al 12 per cento. Lo stesso per l’Australia, che dal 2015 gode di un trattamento preferenziale: rispetto al 2012, la percentuale di vino australiano, calcolata sulle importazioni della Cina, è passata dal 14 al 26 per cento.

Oggi, di fatto, il vino italiano sta crescendo soprattutto nei Paesi dell’Europa dell’Est (Lettonia +144% negli ultimi 5 anni, Polonia +97%, Ucraina +55%), mentre fatica sensibilmente in Asia e Africa, con l’eccezione di Taiwan, dove le nostre importazioni sono salite di 130 punti.

Al di là dei nuovi mercati e di quelli emergenti, prosegue lo studio, è indubbio che la crescita del vino italiano passa ancora e necessariamente dal trend di consumo, e import, dei principali mercati mondiali. Tra questi, Nomisma Wine Monitor ne ha analizzati 6, vale a dire Germania, Uk, Russia, Giappone, Cina e Stati Uniti.

Gli Usa, in particolare, sono, come detto, il principale mercato di consumo e import di vino al mondo, nonché primo per destinazione del nostro export e dove gli italiani giocano un testa a testa nella leadership con la Francia – si legge nella ricerca -. Si tratta di uno dei mercati più ricchi al mondo dal punto di vista del Pil pro capite (59.500 dollari, che diventeranno 70.000 nel 2020) e dove i consumi di vino, nel quinquennio precedente, sono cresciuti a un tasso medio dell’1,4% mentre le importazioni a valore del 5,9 per cento.

I prodotti locali rappresentano oltre i tre quarti dei consumi, ma l’interesse degli americani verso i vini esteri è alto e condensato in un numero ristretto di aree: il 64% dell’import dall’Italia è concentrato in 5 Stati.

Le stime per il prossimo quinquennio evidenziano un’ulteriore crescita dei consumi di vino a un tasso compreso fra il 2 e il 4%, con una progressione dell’import di vino italiano compresa fra il 3,5 e il 5,5% annuo. “Sempre che Trump – conclude Nomisma-Wine Monitor per Vinitaly - non riservi brutte sorprese sul fronte della sua politica protezionistica volta a ‘riequilibrare’ la bilancia commerciale degli Stati Uniti”.

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