Cosa può fare la Grande Distribuzione per la Sostenibilità?
Cosa può fare la Grande Distribuzione per la Sostenibilità?
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Tra poco più di un mese si terrà il GreenRetailForum, il momento convegnistico che da quasi 10 anni si propone come piattaforma di discussione e approfondimento sui temi della sostenibilità per la comunità del mondo distributivo.
Quest’anno, per lanciare i temi e prepararci all’evento che animeremo il 9 ottobre, prendiamo spunto dalla meritoria iniziativa di RetailWatch che ha indetto “una settimana di sciopero contro Idm e Gdo e pure player dell’e-commerce” perché la loro azione sui temi ambientali e sociali è troppo debole e lenta rispetto all’urgenza dei cambiamenti climatici in atto.
C’è tanto da dire e tanto da fare per indirizzare il settore verso una maggiore efficacia d’azione. Proviamo qui ad abbozzare una riflessione che ci auguriamo possa contribuire ad allargare il dibattito e a fare chiarezza su cosa possono fare le aziende per la sostenibilità.
La premessa - in parte esplicitata dal direttore Rubinelli e pienamente condivisa da tanti di noi che nell’ultimo decennio si sono adoperati per portare cultura della sostenibilità nel largo consumo - è che se Idm e Gdo hanno grande potere sulle dinamiche del largo consumo allora hanno anche grandi responsabilità sull’impatto che questi consumi generano rispetto ai cambiamenti climatici, al consumo di risorse, perdita di biodiversità, sperequazione nei redditi e tutto quanto concerne il grande tema dello sviluppo sostenibile.
Se poi consideriamo che alla responsabilità si associa anche una capacità di incidere efficacemente e rapidamente su tutta la filiera produttiva ecco che il ruolo di questi due comparti industriali diventa strategico per dirigere i consumi verso un futuro sostenibile, quindi ancora più urgente una loro azione.
Cosa fanno Idm e Gdo per dirigere i consumi verso la sostenibilità?
Non v’è dubbio che negli ultimi anni tutte le marche e le insegne hanno cominciato a parlare di sostenibilità, non fosse altro perché è diventato un elemento competitivo. Ci sono azioni pensate per aiutare i clienti nella scelta di un prodotto più sostenibile e salvaguardare la loro salute oltre che il loro portafoglio. A queste si affiancano altre iniziative che si inscrivono magari nella responsabilità sociale ma poco hanno a che fare con il core business del retailer e con l’impegno per un consumo sostenibile. La sostenibilità è un tema importante e di lungo respiro, percorrerlo efficacemente non si può ridurre a qualche parola chiave inserita nei claim, a progetti collaterali o al bilancio di sostenibilità. Tutto questo è ancora troppo poco, anche rispetto a quanto è possibile fare guardando esclusivamente ai profitti.
Come facciamo ad affermare che l’impegno non è sufficiente? Ovvero, come si misura l’impegno per la sostenibilità di un’azienda? Qui entriamo nel vivo del discorso e per brevità ci concentriamo solo sul retail - che per altro ingloba le funzioni dell’industria grazie alla Mdd - e solo su alcuni aspetti della sostenibilità, trascurando ad esempio i temi della trasparenza e della nutrizione.
Ci sono due modi di valutare l’impegno di un’azienda che sebbene siano interdipendenti vale la pena trattare separatamente: da una parte c’è la percezione dei cittadini/consumatori ma anche degli osservatori e analisti, dall’altra c’è la misurazione puntuale o meglio la carenza di una misura confrontabile che faccia chiarezza, che ci dica cosa ha più importanza tra le mille modalità di interpretare la sostenibilità che oggi le aziende ci propongono.
Quando diciamo che i cittadini sono sensibili alla sostenibilità stiamo dicendo che cresce la preoccupazione per quello che i media ci raccontano, ad esempio per i cambiamenti climatici in atto. La percezione è quella di un’immensa catastrofe che ci sta portando via quello che di più prezioso abbiamo: la bellezza del nostro pianeta e la sua capacità di sostenere la vita così come la conosciamo. L’umanità, la specie homo sapiens, sta tranciando i suoi legami con le forme di vita non umane e questo ci fa male, non tanto a livello di specie ma di individui. Di fronte a questa catastrofe non c’è bisogno di sapere se io come singolo individuo ho qualche colpa o se siamo stati noi umani a causarla - anche se su quest’ultima cosa non credo che ci siano ancora dei dubbi. Basta comprendere che sta accadendo, proprio adesso di fronte a noi o meglio ancora dentro di noi, per sentirsi responsabili, per voler intervenire e fare qualcosa per evitarla.
È questo il bisogno di fondo a cui rispondono le iniziative che chiamiamo ambientaliste o sostenibili o ecologiste. Le aziende - Idm e Gdo in primis - lo hanno compreso e quindi usano questa leva, ovvero fanno leva sui sentimenti e le emozioni delle persone per rafforzare il legame con i propri clienti facendogli sentire che sono vicini a loro nella battaglia per un mondo migliore. Ma è qui che si inserisce quella sensazione di inadeguatezza delle misure adottate rispetto all’enormità della posta in gioco. I cittadini prendono sempre più coscienza del disastro in atto e non si accontentano di un pack senza plastica o di una verdura a km0, chiedono di più ma senza sapere bene come e cosa. Certamente chiedono un impegno tangibile, attivo, generativo di un cambiamento. Un impegno che sia comparabile con quella percezione di un immenso disastro che peggiora di giorno in giorno.
Oggi se si è titolari di un marchio non basta avere un posizionamento, ovvero costruire una narrazione in cui il marchio propone un mondo in cui ci piace stare e trovare soddisfazione a certi desideri e bisogni, bisogna prendere posizione nel mondo reale - ovvero scendere in campo nelle questioni più importanti per la società, quelle che coinvolgono le persone e danno identità. La recente pronuncia della Business Roundtable sulla difesa degli interessi degli stakeholder per quanto criticabile va proprio in questa direzione, quella di un impegno attivo delle aziende nelle questioni chiave della società, della politica, del cambiamento per un futuro sostenibile. Con tutti i connessi rischi per la democrazia di una crescente ingerenza dell’economia nella politica e sui diritti delle persone.
Ritorneremo alla fine su questo tema del prendere posizione e di cosa possa implicare, prima prendiamo in esame la necessità di misurare le azioni per capirne l’importanza reale. RetailWatch chiede impegni precisi e misurabili su una serie di parametri quali CO2 emessa, riciclo e rifiuti prodotti, spreco alimentare. Secondo questo schema i retailer dovrebbero ridurre il loro impatto e misurarlo anno per anno, per dimostrare che hanno fatto progressi. Un modo rigoroso con cui di solito si affrontano tutte le criticità in azienda ma che per la sostenibilità non è ancora praticato. Sino ad oggi il principale impatto misurato è stato calcolato considerando quasi esclusivamente le sedi e punti vendita e le loro emissioni dirette e indirette (Scope 1 e 2).
Qual è invece l’impatto reale? Quello che attiene alla missione stessa del distributore, ovvero quella di rendere accessibili i beni di consumo attraverso la loro selezione, movimentazione e proposta commerciale. Questo è un punto chiave per un cambiamento sostenibile: la responsabilità del retailer è quella di indirizzare i consumi verso un minore impatto o quanto meno quella di rendere possibile una scelta di consumo meno impattante, quindi il modo migliore che un retailer ha di dimostrare che prende sul serio la sostenibilità è quello di aiutare i propri clienti a ridurre il proprio impatto.
Prendere un impegno concreto con la sostenibilità significa misurare la CO2 emessa e tutti gli altri impatti su persone e ambiente, calcolati su tutto il ciclo di vita dei prodotti venduti, e poi l’anno successivo verificare se si è riusciti a ridurre l’impatto della propria azione di vendita. Un lavoro impegnativo che prevede processi di adeguamento piuttosto laboriosi e che coinvolgono tutto il sistema del largo consumo. Ma non si vede alternativa praticabile alla misurazione degli impatti se davvero si vuole provare a ridurli.
Non è un caso se la Commissione Europea, dopo un lungo progetto pilota, ha definito proprio in questo modo le regole per il calcolo dell’impronta ambientale dell’organizzazione distributiva (Organization Environmental Footprint Sector Rules Guidance). Si è voluto sottolineare il ruolo chiave dell’industria distributiva nell’indirizzo dei consumi verso la sostenibilità, fornendo ai retailer uno strumento metodologico ampio e rigoroso che può aiutarli a rendere conto della propria impronta ambientale su tre livelli: le emissioni clima-alteranti, il consumo di risorse e quindi l’economia circolare, la presenza di inquinanti cancerogeni e non che possono nuocere alla salute umana.
Non è tutto l’impatto del consumo ma è già molto, molto di più di quanto i cittadini e gli stessi retailer possano sapere adesso riguardo la propria impronta ambientale.
Quali conseguenze potrebbe avere l’adozione di queste metodologie sul modo in cui i retailer gestiscono la sostenibilità?
In primo luogo si sposterebbe l’ago della bilancia dalla vendita verso la selezione dei prodotti: i buyer diventano figure chiave per ridurre l’impatto dei prodotti venduti perché sono loro che li selezionano. Si affermerebbe un marketing che può poggiare le proprie affermazioni su basi scientifiche, il che non significa che diventerebbe al 100% veritiero ma almeno più chiaro e attendibile (la trasparenza nelle scelte d’acquisto ne gioverebbe di certo).
Procedendo in questa ipotesi si può immaginare che i retailer comincerebbero a interessarsi di più all’intera filiera, stimolandone l’innovazione in senso sostenibile (se voglio ridurre l’impatto dei prodotti Mdd devo farlo nel contesto della filiera) e così comincerebbero a spostarsi su un secondo livello di azione, quello in cui fare sistema: tra Idm e Gdo, nell’ambito delle filiere della Mdd e magari anche tra colleghi/competitor.
Fare sistema è un modo intrinsecamente sostenibile di fare impresa in quanto genera condivisione della conoscenza, innovazione, efficienza, incontro tra le diversità, autorevolezza delle iniziative e loro conseguente efficacia ed effettività. Fino ad oggi non c’è stata grande volontà di tenere assieme le aziende del commercio sotto il vessillo della sostenibilità e questo certamente ne ha indebolito la posizione, basti pensare a cosa è successo con l’introduzione del sacchetto compostabile in ortofrutta o al caso della filiera del pecorino sardo.
La recente collaborazione di Federdistribuzione con Enea prelude a nuove iniziative che ci auguriamo possano andare in direzione di una maggiore coesione di settore e ancora prima di una misurabilità di impegni e di impatti, anche perché Enea ha partecipato alla scrittura delle regole europee che citavamo sopra.
C’è poi un ulteriore livello di azione che i retailer e ogni azienda può mettere in atto: fare sistema all’esterno, ovvero verso la politica e le organizzazioni internazionali, per contribuire a creare un nuovo modello economico capace di conciliare la creazione di ricchezza con i diritti delle generazioni future, del pianeta, di tutte le forme di vita, di noi stessi che siamo già esposti a inquinanti cancerogeni e a diete che causano malattie non trasmissibili.
È quello che dicevamo prima sul prendere posizione, far sentire ai nostri clienti che siamo con loro nella battaglia per un futuro sostenibile. Questo terzo livello è quello più idealistico, non ha diretta incidenza sul bilancio forse, ma è quello che darebbe più il senso di un autentico impegno, perché fare sistema per cambiare il modello economico implica una consapevolezza: qualsiasi azione di riduzione dell’impronta ambientale noi possiamo adottare adesso finirà per essere irrilevante se non invertiamo la rotta a livello globale e cambiamo modello di creazione della ricchezza.
Perché è questo che intendiamo in ultimo quando parliamo di sostenibilità.
Domenico Canzoniero, NDB – Il Marketing Consapevole
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