Alla convention nazionale del 30 aprile, svoltasi a Roma (dall’eloquente titolo “Stop a inganni e moltiplicazione prezzi. Nasce la filiera agricola tutta italiana”), Coldiretti ha sferrato un attacco senza precedenti alla gdo italiana, accusandola di essere, se non la sola, la principale responsabile del lievitare dei prezzi dei prodotti agricoli dal campo alla tavola.

Coldiretti cita a questo proposito qualche esempio. Il prezzo del latte fresco dalla stalla allo scaffale rincara del 297 per cento, quello delle carote del 421 per cento, della pasta del 733 per cento, della braciola addirittura del 2.145 per cento. Facendo una media si sfiora il 500 per cento. Tutto questo – spiega Coldiretti – è il frutto di «inefficienze e speculazioni che sono costate alle tasche degli italiani 4 miliardi di euro, con l'aumento dei prezzi per i prodotti alimentari che è stato in media del 5,4 per cento contro il 3,3 per cento dell'inflazione generale calcolata dall'Istat».

Coldiretti si spinge oltre e fa i conti in tasca alla distribuzione moderna. Per ogni euro speso dai consumatori in alimenti – stigmatizza - ben 60 centesimi vanno alla distribuzione commerciale, 23 all'industria alimentare e solo 17 centesimi agli agricoltori. Di più. Cita i risultati dell'ultima indagine dell'Antitrust, secondo la quale «i prezzi al consumo praticati dalla grande distribuzione nel comparto ortofrutticolo non sono inferiori a quelli delle altre tipologie di vendita e, in particolare, risultano sensibilmente superiori a quelli praticati dai mercati rionali e dagli ambulanti».

La risposta di Federdistribuzione non si è fatta attendere. L’associazione che raggruppa la maggioranza delle aziende della distribuzione moderna in Italia ha infatti subito bollato le dichiarazioni di Coldiretti come una «spettacolarizzazione e strumentalizzazione di casi limite».

Il vero problema del sistema agroalimentare italiano – secondo Federdistribuzione – è un altro e ha a che fare più con i produttori che non con i distributori: occorre infatti «un generale percorso di ammodernamento e di maggiore efficienza, per arrivare ad avere una produzione che sia di quantità e qualità adeguate alla domanda interna e a prezzi competitivi con quelli degli altri Paesi, che stanno sviluppando sistemi più all’avanguardia». Questo “ribaltamento” delle accuse, però, appare non del tutto convincente, così come le altre (scarse) argomentazioni portate per controbattere quelle mosse da Coldiretti.

I risultati a cui è giunta l’indagine conoscitiva dell’Antitrust citata da Coldiretti su 267 filiere osservate dovrebbero fare riflettere. I ricarichi variano dal 77 per cento nel caso di filiera cortissima (acquisto diretto dal produttore da parte del distributore al dettaglio) al 103 per cento nel caso di un intermediario, al 290 per cento nel caso di due intermediari, al 294 per cento per la filiera lunga (presenza di 3 o 4 intermediari tra produttore e distributore finale), facendo segnare un valore medio del 200 per cento.

Federdistribuzione afferma che la gdo (che veicola circa il 50% del mercato complessivo dell’ortofrutta in Italia) opera con una filiera corta per l’85% dei suoi approvvigionamenti in questo mercato, garantendo così «efficienza nel sistema e la massima convenienza possibile per il consumatore».

Ora, che ognuno tiri acqua al suo mulino si sa. E probabilmente non si può prendere per oro colato tutto quello che Coldiretti sostiene. Noi non siamo degli esperti di logistica e quindi diventa difficile potere credere con oggettività all’una o all’altra tesi. Ma che alivello di grande distribuzione e soprattutto distribuzione organizzata vi siano dei margini di miglioramento dell’efficienza nella filiera ortofrutticola (e non solo in quella) è cosa nota. Così come è risaputo che tutte le catene, a cominciare da Coop, che lo ha più volte ribadito attraverso il suo presidente Vincenzo Tassinari, si stanno fortemente impegnando su questo fronte.