di Luca Salomone

Humana People to People Italia, parte dell’omonima federazione internazionale costituita nel 1994 e oggi diffusa in 45 nazioni, è un’organizzazione umanitaria di cooperazione internazionale indipendente e laica. Buona parte di quello che fa deriva dalla raccolta degli abiti e, come tutti sanno, ha anche negozi. Dunque, sussistono due anime, come ci spiega Alfio Fontana, Csr & corporate partnership manager, con una lunga carriera alle spalle, soprattutto in Carrefour Italia, dove ha lavorato per 17 anni.

Cosa vuol dire ‘due anime’?

Siamo composti da due realtà: Humana People to People Italia Onlus, che riceve finanziamenti per sviluppare e sostenere progetti di alto valore umano e sociale, e una cooperativa, Humana People to People Italia Scarl, che ha tutte le autorizzazioni necessarie per gestire il servizio di raccolta abiti, i cui utili sono destinati alla Onlus stessa. Entrambe le realtà, da statuto, sono senza scopo di lucro.

Come si svolge il vostro lavoro?

Si tratta di un'attività complessa che gestiamo da 25 anni e il nostro servizio è altamente qualificato lungo tutta la filiera. Non ci occupiamo, infatti, solamente di raccogliere gli abiti – oltre 21 milioni di chilogrammi annui - che i cittadini ci affidano tramite gli oltre 5 mila contenitori stradali presenti in Italia in collaborazione con circa 1.200 comuni, ma gestiamo anche tutte le fasi successive: dalla selezione, alla distribuzione, sino alla vendita. Questi passaggi, che costituiscono i vari anelli della filiera, sono tracciabili e certificati da Bureau Veritas, un ente terzo indipendente, che periodicamente effettua verifiche a campione per attestare la trasparenza del nostro operato.

Qual è il percorso che compie un abito una volta inserito in un contenitore Humana?

Dopo la raccolta, parte degli abiti arrivano nel centro di smistamento di Pregnana Milanese, dove c’è anche la nostra sede principale, a cui si aggiungono altre quattro filiali in provincia di Torino, Rovigo, Brescia e Teramo. A Pregnana i capi vengono divisi in quattro grandi gruppi: inverno, estate, riuso e riciclo. Ci sono poi una serie di sottocategorie che portano a una prima suddivisione in 25 classi di prodotto, che poi diventano 40 e, ancora, salgono a 80 micro categorie. Grazie alle loro competenze, i colleghi e le colleghe del centro di smistamento sono in grado di effettuare, in tempi molto rapidi, la classificazione dei capi. Circa il 67,5 per cento della raccolta è destinato al riuso, il 25,5 per cento circa torna a essere fibra, o materiale per isolamento e il 7 per cento, che non è purtroppo né riutilizzabile, né riciclabile, è destinato alla termovalorizzazione. Il nostro modello circolare, in ciascun anello, genera un importante impatto lavorativo sul territorio: la nostra squadra è infatti composta da 219 colleghi, che quotidianamente mettono le proprie competenze al servizio di un importante obiettivo comune.

E poi c’è la vendita…

Esattamente. Gli abiti ancora riutilizzabili vengono venduti principalmente attraverso la nostra rete di negozi: in Italia ci sono 12 punti vendita (undici Humana Vintage e un Humana second hand) e in Europa oltre 500. Durante la pandemia abbiamo lanciato la vendita online tramite app e nel 2022, in occasione della Giornata della Terra, abbiamo inaugurato il nostro sito di e-commerce www.humanavintage.it. Tutti gli utili derivati da questi canali vengono destinati ai nostri progetti di sviluppo nel mondo e alle iniziative socio-ambientali in Italia. Acquistare usato e vintage, quindi, non ha solo un impatto ambientale positivo, ma contribuisce anche a migliorare la qualità di vita di centinaia di migliaia di persone.

Che legame c’è fra la sostenibilità e i Paesi più poveri?

Un legame fortissimo: se essere sostenibili a 360 gradi è un’urgenza ovunque, sia ambientale che sociale, questo è particolarmente vero per le nazioni più povere. Il cambiamento climatico, infatti, sta ulteriormente peggiorando le condizioni di vita proprio di quelle popolazioni che meno sono responsabili di questo fenomeno e che sono ancor meno preparate ad affrontarne le conseguenze devastanti. Spesso si parla di sostenibilità solo in termini di impatto ambientale, ma è fondamentale agire per generare anche esternalità sociali positive. La tutela del pianeta e la riduzione delle disuguaglianze devono essere due obiettivi perseguiti con lo stesso impegno. Prolungare la vita di un abito, per noi di Humana, significa non sprecare risorse naturali importanti e, al contempo, generare utili per fornire a migliaia di persone nel mondo gli strumenti per diventare protagonisti del proprio futuro. Ma se vogliamo davvero cambiare il mondo e renderlo un posto migliore per tutti dobbiamo farlo insieme.

In che senso?

Semplice: alleandosi con altri soggetti. Credo molto nelle partnership e sono numerose le realtà del mondo corporate, come Woolrich, Patagonia, Candiani jeans, Carrefour, Ovs, con le quali stiamo creando progetti di valore; nel mondo accademico collaboriamo ormai da tempo con Istituto europeo di design e Domus academy: qui si formano coloro che progetteranno gli abiti di domani, che dovranno essere sempre più in linea con i principi dell'eco-design, quindi mono materiali, in tessuti naturali, con pochissimi sfridi di produzione. E poi ci sono saldi legami con altre organizzazioni e start up, con le quali condividiamo molti valori, come con AWorld, l’app ufficiale dell’Onu.

Può farmi un esempio di collaborazione?

Realizziamo diverse campagne take back. L'iniziativa consiste nel posizionamento di ecobox all'interno di punti vendita (generalmente di catene di abbigliamento, ma non solo): il cliente può portarvi i propri abiti usati, che entreranno poi nella filiera di Humana, contribuendo così alla mission della nostra organizzazione. Queste iniziative instaurano un meccanismo virtuoso che coinvolge sia l'azienda partner, che spesso sostiene anche attraverso una donazione economica un progetto di sviluppo specifico di Humana, sia i cittadini che agiscono in prima persona portando i propri abiti nei negozi. A fine campagna il nostro partner riceve una rendicontazione dei quantitativi di abiti raccolti anche in termini di impatto ambientale. Collaborazioni di questo genere, dal punto di vista del posizionamento dell’insegna, o del marchio, hanno un valore molto importante poiché dimostrano un impegno concreto dell’azienda in termini di responsabilità ambientale e sociale. Inoltre, diverse realtà decidono anche di svolgere azioni attive, come il volontariato aziendale presso il nostro centro di smistamento e il nostro orto di comunità, l’Orto 3C. Si tratta di un progetto di agricoltura ecologica urbana che sorge a pochi passi dalla nostra sede principale. Ciascun partecipante ha a disposizione per due anni un lotto di terra di 30mq da coltivare e frequenta un percorso formativo gratuito. L'obiettivo è di promuovere tecniche di agricoltura sostenibile, incentivare l'autoproduzione, ma anche sostenere persone con fragilità, coinvolgendole nel progetto.

Economia circolare nel tessile: il vostro è un modello consolidato, ma quali sono le nuove sfide da affrontare oggi? Le normative vi aiutano?

I nuovi input normativi sono il segnale di una crescente attenzione verso il settore tessile, visto oggi come strategico per attuare un reale sviluppo sostenibile. L’Italia, su alcuni fronti, è abbastanza ferma, mentre su altri ha agito con anticipo rispetto alla Comunità Europea, per esempio rendendo obbligatoria la raccolta differenziata tessile dal primo gennaio 2022. Altra tematica chiave è l’Epr, ossia la responsabilità estesa del produttore. Siamo in attesa dei decreti attuativi, che vadano a definire in quali termini il produttore di un capo dovrà farsi carico anche del fine vita dello stesso. Su questi temi stiamo già ragionando, per esempio con la Gdo e con il settore della moda, perché si tratta di concepire, innanzitutto, una produzione che tenga conto delle fasi ultime dei beni. Avendo lavorato per molti anni come energy manager so benissimo che si può ridurre solo ciò che si conosce perché si misura. Tutto va inoltre concepito in un’ottica di filiera, domandandosi per tempo dove un prodotto conclude il proprio ciclo e dunque progettando i beni in funzione di una seconda vita, tale da generare qualcos’altro. Ma questo circolo virtuoso è un concetto che deve ancora, in larga parte, concretizzarsi.

Cosa ha comportato, per voi, il periodo del Covid?

Durante i lockdown la raccolta si è ridotta molto, perché le persone non uscivano di casa, se non per ragioni indispensabili. Nel momento in cui, invece, è stato possibile tornare a utilizzare il servizio, il sistema ha avuto una ripresa sui livelli precedenti. Non ho invece percepito, come si potrebbe pensare, una sorta di fobia verso l’usato. Anzi il Covid ha aumentato l’attenzione verso la sostenibilità, perché le persone si sono sentite più fragili e hanno avuto più tempo per riflettere. Questo può avere contribuito anche a una ricerca, da parte di molti, di uno stile di vita più attento all'ambiente, partendo pure dalle piccole cose, come i propri acquisti.

Qual è l'approccio italiano al settore dell'abbigliamento usato?

È un approccio sicuramente in evoluzione: raccogliamo tanto e tanti prodotti di qualità, anche se quest’ultima si è ridotta nel corso del tempo per via del fast fashion, che ha dilagato negli scorsi anni. Sul fronte della vendita di abiti usati, abbiamo dovuto inizialmente contrastare un po’ di pregiudizi, poiché in Italia non c’era la “cultura” del second hand, già molto diffusa invece in altri Paesi europei. Oggi, però, la situazione è decisamente cambiata e soprattutto i giovani hanno sempre più una coscienza ambientale e sociale, anche quando fanno shopping. I nostri negozi, grazie a prezzi accessibili, rendono inoltre democratica la sostenibilità: chiunque deve avere la possibilità di vestire in maniera responsabile.

Nei Paesi destinatari i capi vengono regalati?

Gli abiti che arrivano in Africa, tramite la nostra organizzazione, sono donati solo in caso di emergenza. Il nostro intento, infatti, è di creare occupazione e sviluppo. I vestiti che arrivano in questi Paesi, sotto forma di quello che noi chiamiamo il ‘tropical mix’, sono di qualità, vengono ulteriormente selezionati e sono rivenduti a prezzi accessibili, attraverso la rete di Humana. Il ricavato serve, anche qui, a finanziare i progetti sociali sul territorio, gestiti dalle associazioni della Federazione Humana in loco.