Reno: l'apocalisse retail esiste davvero?
Reno: l'apocalisse retail esiste davvero?
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Dal 1989 Reno Your Retail Partners ha sviluppato un’approfondita conoscenza del mercato immobiliare commerciale, sia riguardo alle strutture commerciali, sia ai centri città, contribuendo al successo di molte catene nazionali e internazionali, dalle merceologie più classiche (ristorazione, abbigliamento ecc.
, alle nuove richieste del mercato.
Con un approccio da società di consulenza retail, Reno, che celebra nel 2019 i suoi primi 30 anni di attività, mette a disposizione una squadra di professionisti in grado di analizzare il mercato retail real estate dall’interno e in tutta la sua complessità, per fornire le soluzioni più adatte al business dei clienti: dalle grandi realtà ai progetti che lo diventeranno.
La società, con base a Segrate (Milano), conta uno staff di 20 consulenti, segue più di 1.000 insegne, ha contribuito all’apertura di più di 5.000 punti di vendita, monitora all’incirca 1.500 strutture commerciali e mappa oltre 5.400 vie commerciali, tra high street e vie ad alto traffico.
In cosa consiste il lavoro di Reno e quali sono oggi i trend emergenti nella scelta delle location distributive? Abbiamo girato i quesiti al Managing director, Gian Enrico Buso, che è anche membro del direttivo di Confimprese.
Come è cambiata la vostra attività nel corso degli anni?
La nostra attività di consulenza strategica e di supporto ai retailer sì è evoluta nel tempo: il numero dei centri commerciali è cresciuto notevolmente e il nostro intervento è diventato fondamentale per gli operatori che devono compiere scelte strategiche e di sviluppo in ambito retail real estate. Il nostro database, che, nei primi 10 anni, contava circa 700 shopping center, è salito oggi a 1.250 strutture. Con simili cifre il nostro lavoro è diventato sempre più raffinato e capillare, arrivando a ridisegnare l’Italia per ‘bacini retail’ che tengono conto di un alto numero di variabili: condizioni socioeconomiche, area di apertura, situazione competitiva sul territorio e via dicendo. Oggi siamo in grado di individuare le aree commerciali con potenziale maggiore, in modo da permettere, agli imprenditori e sviluppatori, di fare i propri investimenti in modo mirato e con le maggiori possibilità di successo.
In una società dell’informazione tutte queste notizie non sono già reperibili?
Sì, lo sono, ma bisogna essere in grado di leggerle e di dare loro, attraverso una metodologia, un forte significato di business. Abbiamo sviluppato un processo interpretativo proprietario, che consente di fare analisi approfondite. Mi spiego: non si tratta semplicemente di capire che una certa area potrebbe essere profittevole, ma di comprendere cosa offre la concorrenza, quali sono i format e le proposte già presenti, lo scenario nella sua prospettiva futura, per garantire l’originalità, elemento che può fare la differenza. Al servizio dei clienti ci sono team specializzati nei vari settori: fashion, profumeria, servizi, mass merchandising e altro.
Esiste davvero un’apocalisse retail?
Credo che l’espressione sia troppo forte per il mercato domestico. I consumi non sono certo brillanti e questo è un’evidenza chiara, ma allo stesso tempo molti operatori possono farcela con un valido riposizionamento. Il tema del rinnovo, per esempio, è enorme nel mondo dell’abbigliamento, che deve recepire, come altri settori, le nuove richieste del consumatore. Le catene stanno cercando di capire realmente chi è il loro cliente, per poter offrire una nuova esperienza di acquisto. Ci troviamo, quindi, a lavorare sia sui contenitori fisici, sia su tutte quelle aree che hanno a che fare con l’esperienzialità. Altri scossoni stanno arrivando, in tutto il commercio, dall’online, per cui i retailer devono essere in grado di sviluppare l’omnicanalità, che non è, come si teme e crede, una minaccia, ma un’opportunità, un nuovo ambito nel quale muoversi.
E per i centri commerciali?
Qui i problemi sono diversi. Mentre i centri di fascia alta non sembrano avere grandi problemi, ma semplicemente sono chiamati ad attuare gli opportuni adeguamenti, le strutture non di punta devono prepararsi a ripensare le proprie gallerie. Il revamping deve tenere conto, per esempio, della forte richiesta di spazi ristorativi. La food court non è ‘la soluzione’ per antonomasia, ma una parte di una strategia più complessa e che comporta anche aspetti come la riduzione delle metrature della cosiddetta ‘locomotiva’, oggi messa in discussione dal commercio di vicinato e dai discounter, sempre più evoluti. Recarsi in un centro commerciale richiede tempo e dunque il consumatore deve trovare concreti motivi per farlo. In molti casi ci accorgiamo che le migliori marginalità e redditività si ottengono non tanto nelle location ‘prime’, quanto nei negozi inseriti in complessi commerciali di prossimità, compatti, non dispersivi, in contesti con affitti ragionevoli e con bassa tensione competitiva.
In che misura i retailer applicano la logica del cambiamento?
Ho la sensazione che si stia continuando, in molti casi, a navigare a vista, in quanto il completamento dell’omnicanalità, tanto per fare l’esempio principale, rimane un obiettivo più o meno lontano, come distanti restano le nuove frontiere tecnologiche dell’intelligenza artificiale. In ogni caso le trasformazioni ci saranno, in quanto il retail è riadattamento, un riadattamento che deve tenere conto per forza del fatto che la popolazione italiana di oggi è composta, per il 43%, da millenial e generazione Z, dunque da nativi digitali.
Quanto è ampio il fenomeno dell’esportazione dei nostri brand distributivi?
L’internazionalizzazione è sicuramente rilevante, specie per quei marchi che hanno ormai saturato il territorio nazionale. Spesso, però, l’imprenditore italiano sceglie un partner, o un dealer, e affida a esso tutta la parte dello sviluppo attraverso il franchising. Sovente parliamo di semplici tentativi, sulla base dei quali vengono poi articolati i programmi di espansione. Invece una buona partenza e un eventuale successo comportano una conoscenza profonda e diretta dei mercati esteri e una gestione in prima persona.
Quali sono, secondo lei, i migliori Paesi target?
Qui la scelta non è semplice, visto che le grandi economie dell’Europa occidentale, come Francia e Germania, sono caratterizzate da una fortissima competizione, per non dire della Gran Bretagna, sulla quale pesa il rischio Brexit. Mete più lontane, del resto, comportano alti livelli di complessità. In questo momento, per esempio, emerge la Polonia, dove però il processo di colonizzazione commerciale ed esportativo in genere, è già, in larga parte, compiuto: rimane però interessante la forte progressione del reddito pro capite. Promettente è anche la Spagna, che, dopo molti scossoni politici ed economici, è in ripresa. Mercati più lontani, come Giappone, Cina, Usa, sono, in certo qual modo, pieni di incognite e riservati solo ad alcuni brand, molto robusti da un punto di vista finanziario.
In Italia, a parte a Milano e Roma, sembrano emergere altre città, oltre a collocazioni diverse dal centro storico. Cosa ne pensa?
I prezzi immobiliari restano stabili, o in leggera crescita. Il ritorno economico di città diverse dalle classiche Milano e Roma è tutto da valutare. In questo momento, per esempio, Torino offre grandi opportunità, grazie al rilancio e al miglioramento del centro storico. Rimane il fatto che, pure nelle città, per così dire, secondarie, il commercio di tipo premium è concentrato, anche per motivi di turismo, solo in alcune vie molto centrali. La rivitalizzazione di altre location, come le strade di grande passaggio, sta attirando invece l’attenzione di merceologie più di massa, come i prodotti per la cura della persona, la Gdo, il brico, la ristorazione.
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