di Luca Salomone

Gira e rigira da qualche giorno, sulla stampa anglo americana, una notizia che, se non fosse per l’autorevolezza della testata, suonerebbe, per lo meno, come un’ipotesi molto campata in aria: Amazon, riporta il Wall Street Journal, avrebbe deciso di ridurre drasticamente, e poi lasciare, il settore delle private label, dove contava, nel 2020, sempre secondo il quotidiano Usa, 243 mila referenze per 45 marchi.

Inchiesta a Bruxelles

A incidere sul ‘gran rifiuto’ sarebbero sia il bisogno di allentare l’attenzione della Commissione europea, sia, implicitamente, la necessità di non sollevare, ancora di più, le ire dei venditori che operano sul marketplace.

Ma facciamo qualche passo indietro. Tre anni fa esatti, il 17 luglio 2019, Bruxelles ha aperto un’inchiesta con l’intento di capire se Amazon non abbia violato le regole della concorrenza europea, utilizzando i dati, non pubblici, dei commercianti che vendono sulla propria piattaforma, in modo da ottenere un vantaggio su di loro.

A questa indagine se ne collega direttamente un’altra, finalizzata a verificare che Amazon non agevoli, nella vendita al dettaglio, quegli operatori terzi che utilizzano il suo sistema di logistica e consegna Prime, rispetto ad altre imprese, sempre attive sulla propria piattaforma, ma che hanno invece deciso di spedire in autonomia.

Per un miliardo di euro

La Commissione in una recentissima nota conclusiva, datata 14 luglio 2022, si rifà espressamente a un provvedimento della nostra Agcm, conclusosi il 30 novembre 2021 e notificato il 9 dicembre, che ha sollevato gli stessi problemi, fissando una multa iperbolica, di 1 miliardo di euro, per pratiche anticoncorrenziali.

Come è noto sulla questione è intervenuto, il 30 marzo 2022, il Tar Lazio, che ha congelato tutto, rinviando la decisione di merito a una prossima udienza, fissata per il 26 ottobre 2022. Peraltro, la giustizia amministrativa ha affermato che una simile sanzione non ha caratteristiche di urgenza e che, se applicata repentinamente, “potrebbe compromettere in modo significativo la capacità aziendale e l’equilibrio economico-finanziario della parte ricorrente”.

Anche le accuse della Commissione sono state più volte respinte al mittente dalla diretta interessata, che si è detta in disaccordo, ma che ha anche deciso di collaborare attivamente nell’interesse del consumatore e delle 185.000 Pmi europee che vendono prodotti tramite la sua piattaforma. Fra l'altro il gruppo si è impegnato a non utilizzare i dati non pubblici dei venditori del marketplace.

Un mondo di Mdd

Quello che non persuade nell’ipotesi del Wsj è che il settore distributivo marcia sempre di più verso le Mdd. Rimanendo all’interno del bacino europeo i dati di Plma (leggi altro articolo di Distribuzione moderna) dimostrano che la quota di vendite realizzata dai retailer, grazie ai propri marchi, cresce di continuo, oscillando oggi, a seconda dei Paesi, fra il 30 e, quasi, il 60 per cento.

Non solo. L’avventura di Amazon nel mondo delle marche private non è certo nuova, ma ha alle spalle un lungo e laborioso iter di progettazione, reperimento dei fornitori, marketing e lancio.

Anche non considerando i prodotti ideati e commercializzati in proprio, come il lettore di e-book Kindle, il tablet Fire, l’hardware Echo, in grado di interfacciarsi con il sistema di intelligenza artificiale e riconoscimento vocale Alexa, l’insieme delle Pl Amazon aveva raggiunto, nel 2019, la cifra di 158 mila, per 45 brand.

Questo secondo una ricerca pubblicata, ad aprile 2022, dal sito indipendente canadese Emomcrew.com, che ha fatto la conta incrociando rilievi sui siti Amazon, cifre messe a disposizione da Statista e precedenti pubblicazioni.

La fonte osserva, fra l'altro, che il programma Mdd del gruppo Usa è partito nel 2005 e si è consolidato nel 2009, soprattutto grazie al marchio Amazon basics.

Sempre due anni fa a svolgere la parte del leone era ancora Amazon basics (57,8 per cento) e dunque il mondo dei casalinghi e dell’elettronica, dai mouse e tappetini, alle batterie, ai cavi… Secondo in classifica l’aggregato ‘altri marchi’ (19%), terzo Amazon collection (gioielleria) con il 7,8% e il marchio ombrello di abbigliamento per uomo e donna Amazon essentials (4,7 per cento). Il prezzo medio si presentava, due anni orsono, contenuto, nel 49,3% dei casi, entro una media di 20 dollari.

È possibile che un retailer, anche se forte di 470 miliardi di dollari di fatturato, voglia davvero rinunciare a tutto questo? E poi: perché scontentare i partner produttivi, per accontentare, forse, i rivenditori del marketplace?