di Luca Salomone

L’Italia conferma la propria leadership mondiale nella pasta, una nicchia globale, considerato che il grano duro rappresenta appena il 4% del frumento che è, invece, per la grande maggioranza, grano tenero, utilizzato per i prodotti da forno.

Il nostro Paese è il primo produttore mondiale con 3,7 milioni di tonnellate, pari al 22,3% del totale, seguita dalla Turchia e dagli Stati Uniti (2 milioni di tonnellate ciascuno), e anche il principale esportatore, con 2,1 milioni di tonnellate, che valgono il 43% del dato globale, sempre davanti alla Turchia (1,3 milioni di tonnellate).

Lo ribadisce la prima indagine (rilasciata a fine gennaio) che l’Area studi di Mediobanca ha dedicato al settore. Il limite, purtroppo, è che la maggior parte delle cifre è riferito al 2022.

Importazioni al 35 per cento

Continuando con i dati risulta che il nostro Paese mantiene il vertice del più alto consumo pro-capite: 23 kg di pasta all’anno (19,8 di pasta secca e 3,4 kg di fresca), davanti a Tunisia (17 kg), Venezuela (15 Kg) e Grecia (12,2 Kg).

La produzione di grano duro nostrano, con 3,8 milioni di tonnellate rappresenta il 12% a livello planetario, alle spalle del Canada (15%).

Tuttavia, il Bel Paese non è autosufficiente, con un rapporto fra volumi prodotti e consumati intorno al 65 per cento. Ecco perché è anche il quarto maggiore importatore di grano duro, con il 6,4% del totale mondiale (1,9 milioni di tonnellate), acquistato principalmente da Canada, Francia e Grecia.

Per regione la Campania è prima nell’export pastario, con il 24,4% nazionale. E qui si concentrano il 19% della produzione e il 13% dei pastifici domestici.

Segue l’Emilia-Romagna in seconda posizione sia per quanto riguarda il peso delle esportazioni (20,4% del totale), sia per il volume prodotto (18%), con un numero di pastifici pari all’8% del totale della Penisola.

La Sicilia, pur ospitando la gran parte dei nostri molini - 36% - vede la propria offerta scendere al 7%, con un export di appena lo 0,4%.

Da non dimenticare la Puglia, che è prima nella produzione di grano duro (23,2% sempre su dimensione nazionale).

Fra Mdd e aumento dei prezzi

L’Italia appare, in realtà, divisa in due: se quasi il 60% delle fabbriche di pasta secca si trova al Centro e al Sud, oltre il 90% di quelle di pasta fresca è ubicato al Nord.

Circa il 75% dei consumi è veicolato dal canale Gdo, dove le Mdd rappresentano il 35%, consentendo un risparmio del 25% sulla pasta fresca e del 15% su quella secca. Tuttavia, nel 2022, il ritorno dell’inflazione ha colpito fortemente questo mercato, con un aumento medio dei prezzi finali del 17,4%, quasi il doppio rispetto alla variazione dell’intero comparto alimentare (+9,3%).

Buttando l’occhio ai preconsuntivi 2023 si scopre che i maggiori produttori di pasta si attendono di chiudere i dodici mesi con una crescita delle vendite del 5%, più marcata sul territorio locale (+5,9%) e meno su quello estero (+4,1), oltre a un incremento degli investimenti materiali del 7,2% e a una salita delle spese pubblicitarie, dall’1,8% precedente fino al 3 per cento.

Ancora nel 2022 il fatturato dei maggiori pastifici italiani ha segnato un incremento nominale del 28,2% sul 2021 e il 13,8% del giro d’affari complessivo ha riguardato aziende a controllo straniero. “Tenuto conto della variazione dei prezzi alla produzione – si legge - la crescita reale delle vendite (2022) dell’intero comparto si è attestata all’8,5% (+5,2% il fatturato nazionale, +11% l’export)”.

I pastifici del Mezzogiorno, con 115 milioni di ricavi medi, sono i più grandi della nostra Penisola, seguiti da quelli del Nord Est (105 milioni). Al Sud sono, naturalmente, i produttori di pasta secca a evidenziare la maggiore dimensione (125 milioni), mentre a Nord Est la taglia più grande è appannaggio delle industrie della pasta fresca (137 milioni).

Bilanci in sofferenza

Dal punto di vista finanziario il 2022 ha segnato, nonostante tutti questi primati, un calo della redditività: l’Ebit margin (3,3%) si è ridotto del 28,3% sul 2021, il Roi (4,9%) del 9,3% e il Roe (5,7%) del 13,6%, con indicatori in dimezzamento rispetto a quelli del 2019.

E ancora: sempre due anni fa il 20,8% dei pastifici nostrani ha chiuso l’anno in perdita, quota raddoppiata sul 2019, quando il dato era del 9,7 per cento.

Infine, nell’anno in analisi, solo il 14% delle aziende ha realizzato un rapporto di sostenibilità, peraltro obbligatorio, dal primo gennaio 2024, in base alle norme Ue per tutte le aziende con più di 250 dipendenti, un bilancio annuo superiore ai 43 milioni di euro e un fatturato di oltre 50 milioni.

In compenso le industrie della pasta hanno fatto ampio uso di certificazioni. Gli standard di qualità più diffusi sono quelli riconosciuti da Global food safety initiative (Gfsi) a garanzia della sicurezza alimentare: la certificazione Ifs (International food standard) è presente nel 98,4% dei casi e quella Brc (British retail consortium) nel 93,4 per cento. L’attestazione di provenienza biologica arriva al 91,8 per cento, mentre il 54,1% delle imprese segue gli standard Kosher e il 32,8% i dettami Halal.