di Luca Salomone

Cresce ancora, e in modo preoccupante, il fenomeno dell’italian sounding, probabilmente rinvigorito dall’inflazione, che ha reso ancora più agevoli i raggiri che puntano, in parte, anche sul prezzo minore delle imitazioni.

Pasta, olio e prosecco nel mirino

I dati resi noti, nei giorni scorsi, a Bormio, da The european house Ambrosetti e Ismea, in occasione del settimo forum ‘La roadmap del futuro per il food&beverage’ dimostrano che, eliminando il falso made in Italy, il valore del nostro export agroalimentare potrebbe raddoppiare, passando da 59 a 119 miliardi di euro.

Nel 2022 questa forma di raggiro a danno delle nostre industrie e dei consumatori esteri è stata pari, nel mondo, a 91 miliardi di euro, di cui 60 spesi da clienti in buona fede, che realmente desidererebbero acquistare alimentari autentici e che, invece, cadono nel tranello.

Ma quali sono i prodotti più colpiti dalle imitazioni? Come si legge nel rapporto, di oltre 100 pagine, “i primi 3 beni per valore nei 10 Paesi dove il fenomeno è più diffuso sono, nell’ordine, la pasta di grano duro, con 2,79 miliardi di euro di ‘sounding’, l'olio extra-vergine di oliva, 1,68 miliardi di euro, e il prosecco, con 1,48 miliardi”.

Inoltre, risulta che, in valore, il fenomeno è maggiormente concentrato negli Stati Uniti, dove ha un peso di 3,5 miliardi di euro, in Germania, con un dato di 3,4 miliardi di euro, e nel Regno Unito, dove è quantificabile in altri 2 miliardi.

Ma per quote le situazioni peggiori si riscontrano “in Giappone, Brasile e, di nuovo in Germania. L’incidenza media dei prodotti imitativi sugli scaffali nipponici è pari al 70,9%, mentre nella Gdo e nei negozi brasiliani il dato arriva al 70,5% e in quelli tedeschi al 67,9 per cento”.

«L’obiettivo del rapporto – commenta Benedetta Brioschi, associate partner e responsabile food&retail di Ambrosetti – è tracciare una direzione, un percorso di investimenti pubblici e privati i quali permettano alle nostre imprese di soddisfare la voglia di “made in Italy” del mondo e riconquistare quei 60 miliardi di euro sottratti.

«Tuttavia devo osservare come un fattore che limita la nostra presenza internazionale è anche la frammentazione del nostro agroalimentare, composto per l’85,4% da piccole imprese, le quali contribuiscono soltanto al 14,6% dei ricavi».

A livello macroeconomico l’ultimo anno si è chiuso con un incremento del 15,3% del nostro export food, la variazione più significativa registrata a partire dal 2000, almeno facendo la tara delle dinamiche inflattive.

Come descritto nel rapporto l’Italia è oggi primo esportatore al mondo di polpe e pelati di pomodoro (76,7% sul totale del flusso mondiale), di pasta (48,4%), di castagne sgusciate (32,6%), di passate e concentrati di pomodoro (24,2% del mercato) e al secondo gradino nei formaggi freschi, kiwi, vini e liquori, mele e nocciole.

Nessun primato, invece, per il valore cumulato: i 58,8 miliardi di euro di export agroalimentare, registrati nel 2022, permettono all’Italia di raggiungere solo il quinto posto in Europa: l’export tedesco vale 25 miliardi in più e quello francese 20.

L’agroalimentare, inoltre, vale il 9,4% delle vendite estere totali italiane a fronte di un 13,5% della Francia e di un 17% della Spagna.

Educare meglio e investire di più

Sulle imitazioni c’è da chiedersi se sia possibile recuperare terreno e in quanto tempo. Ambrosetti e Ismea ipotizzano tre scenari. Si potrebbe, intanto, raddoppiare il tasso di crescita degli investimenti nel settore, ma ci vorrebbero ben 27 anni per convertire l’italian sounding in nuovo fatturato, e quindi in esportazioni.

Raddoppiare il tasso crescita degli investimenti insieme alla produttività, puntando su innovazione e digitalizzazione, dimezzerebbe quasi l’intervallo, ma si rimarrebbe comunque nell’ordine dei 15 anni.

Nel terzo e migliore scenario al raddoppio del tasso di crescita di investimenti e produttività, si aggiunge l’impulso dei fondi del Pnrr, un elemento che consentirebbe di scendere a 11 anni.

«Abbiamo realizzato un vero e proprio manifesto per contrastare l’italian sounding – conclude Brioschi– con azioni concrete e finalizzate a consolidare il ruolo dell’Italia come Paese di riferimento nello sviluppo delle eccellenze. Oltre alle azioni già dette è fondamentale aumentare la consapevolezza dei consumatori stranieri sulla qualità del made in Italy e comunicare con efficacia. Non solo: l’educazione deve essere fondamentale così come la concreta riduzione delle barriere tariffarie doganali, o l’introduzione di meccanismi di disincentivazione alle indicazioni fallaci. Le aziende del settore food&beverage devono avere la possibilità di rafforzare la competitività internazionale, magari sostenute da ambasciatori del made in Italy. Ultimi, ma non meno importanti, l’adozione di soluzioni che consentano la tracciabilità dei prodotti e l’avvio di un processo di internazionalizzazione della distribuzione italiana».

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