Santambrogio: i perché dell’addio tra VéGé e Metro e le sfide del presente
Santambrogio: i perché dell’addio tra VéGé e Metro e le sfide del presente
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di Maria Teresa Giannini
Che VéGé e Metro siano destinate a percorrere strade parallele, almeno nell’immediato futuro, è ormai un fatto dal 28 settembre scorso.
A dicembre 2023 i due player della distribuzione “mangeranno il panettone” ancora insieme, ma si tratterà dell’ultimo, visto che la rottura sarà effettiva subito dopo. Dal 9 gennaio 2020 VéGé e Metro mantenevano una partnership di reciproca soddisfazione, tanto da resistere alla pandemia da Covid-19 e alle problematiche inflative derivanti dal conflitto russo-ucraino.
Dopo 4 anni insieme, il contratto di mandato, nuovamente siglato 10 mesi fa, è giunto al capolinea anzitempo – doveva durare fino al 2024 – in un momento in cui la tendenza del mercato, al contrario, spinge all’aggregazione. L’amministratore delegato del Gruppo VéGé, Giorgio Santambrogio ha spiegato alcuni aspetti importanti per capire quanto accaduto e ha fatto il punto sulle sfide – inflazione in primis – che il Gruppo sta affrontando.
Il 22 dicembre 2022 avevate rinnovato l’accordo con Metro: questo “divorzio”, quindi, è stato un fulmine a ciel sereno oppure era nell’aria?
No, nulla che ci abbia spiazzato, quanto è successo è figlio della nostra volontà di rispettare la loro scelta. Metro è stata una delle imprese che negli ultimi tempi sono entrate nel gruppo, come mandante, diventando parte di quella strategia di aggregazione che ci ha permesso – insieme ad altri indicatori – di crescere, passando in poco più di un decennio da 1,8 miliardi di euro di fatturato, agli attuali 12,65 miliardi di fatturato. Metro, in particolare, ci affidava la gestione del 100% dei contratti Aicube 4.0, delle industrie di marca loro fornitrici.
Da cosa è scaturita la vostra divisione, quindi?
L’anno scorso, a scadenza del primo triennio, abbiamo insieme riscritto il documento di partnership in accordo con le indicazioni emerse da Metro o, meglio, dalla casa madre tedesca: quella di riportare sotto il proprio cappello le negoziazioni estere, non solo dalle filiali in Italia, ma da tutti i paesi europei. Già per il 2023, quindi, Metro diminuiva le categorie che in passato avevamo sempre trattato per conto loro e le accorpava nei due macrosettori “bevande” e “disposable”. In questi anni abbiamo lavorato alla grande insieme ed abbiamo fornito loro, conseguentemente, vantaggi incredibili. Poi, per quasi un anno, abbiamo aspettato, osservando gli sviluppi della situazione, ma alla fine hanno preso la loro decisione.
È la seconda volta che una realtà importante con cui collaborate sceglie una strada in solitaria. Era già successo a luglio con l’uscita di Carrefour dalla centrale d’acquisti Aicube 4.0. Perché, secondo lei, alla fine queste situazioni non si sono ricomposte nel segno dell’unità con voi?
Il motivo è proprio il fatto che non ci sono rapporti commerciali logori da ricucire – difatti, non escludo che in futuro si collabori nuovamente a un progetto comune – ma si tratta di un cambio di rotta strategico generale: molte multinazionali del retail stanno dismettendo le partnership nelle singole countries, portando a un livello corporate worldwide le negoziazioni. Sarà indubbiamente una scelta corretta e certamente da rispettare, sebbene personalmente abbia qualche remora sulla perfetta efficacia. In effetti, posso dire che non è affatto semplice gestire a livello centralizzato europeo, rapporti con realtà molto variegate fra loro per dimensioni, categorie e appartenenza territoriale. Per quanto riguarda gli amici di Carrefour, non abbiamo fatto altro che prendere atto della richiesta che l’Internazionale ha fatto loro di far convergere in Eureka, a Madrid, qualche decina di fornitori, lasciando in Aicube 4.0 la differenza. Effettuando un parallelo, se di norma stigmatizziamo, a punto di vendita, il comportamento dei consumatori che adottano una politica da Cherry Picker, non potevamo consentirlo a maggior ragione in una importante filiera di negoziazione. Ecco quindi la nostra scelta, obtorto collo, di interrompere la partnership.
Lo dice quasi come se fosse difficile per queste due realtà…
No, no: ognuno correttamente deve guardare in casa propria e quindi non mi permetterei. Dico solo che nel nostro settore non si tratta solo con i grandi gruppi o multinazionali come Ferrero, Procter, Barilla, Henkel o Unilever, ma anche con una sempre più crescente costellazione di piccole, medie e microimprese. È un lavoro fatto anche molto di contatti umani: può essere difficoltoso il compito di un pur bravissimo manager francese o spagnolo, che da Madrid deve negoziare, per esempio, con una piccola azienda italiana locale di mozzarella. Il futuro, come il trend evidenzia, non è più solo delle grandi multinazionali, ma anche delle aziende del territorio, delle tipicità.
Guardandovi intorno, pensate che ci siano altre insegne interessate a entrare nel gruppo o quanto è successo potrebbe fungere da deterrente?
Da sempre, l’approccio di Gruppo VéGé e di tutti gli Imprenditori del gruppo è improntato sull’umiltà, corroborata peraltro anche dalla consapevolezza della propria forza: siamo attivi dal 1959, siamo il primo Gruppo della Distribuzione nato in Italia, siamo in crescita ininterrotta da 12 anni ed abbiamo raggiunto stabilmente il 4° posto nel ranking del retail italiano come vendite. Ci stiamo sicuramente guardando intorno per comprendere con quali partner intraprendere un nuovo percorso strategico di medio lungo periodo, in quanto, si sa, le economie di scala comandano il nostro settore. Ma non necessariamente è un atto dovuto: se vi sono i presupposti, chapeau, si può e si deve siglare una mirabile partnership. In alternativa, ci potrebbe essere una sorta di “anno sabatico” che ci prendiamo, al fine di rinforzare ancor più la qualità della nostra offerta.
Dallo scoppio della guerra in Ucraina, l’inflazione si è attestata fra l’8 e il 10%, con punte superiori all’11%: come avete aiutato i consumatori a correre ai ripari? È cambiato qualcosa con l’avvento del trimestre anti-inflazione?
Tutte le nostre insegne, quindi oltre 2100 punti di vendita al dettaglio sull’intero territorio nazionale, aderiscono al trimestre-antinflazione, ma già prima eravamo impegnati in una strenua difesa del potere d’acquisto. A cambiare, con l’iniziativa governativa, sono la profondità, l’entità e la durata delle azioni che già prima mettevamo in campo. Sul fronte dei prezzi, se prima avevamo, ad esempio, lo sconto a fasce 20-30-40%, ora lo stiamo innalzando al 30-40-50%; se il cut price era al 33%, oggi è nell’intorno del 40% e spesso lo sconto del 40% si è trasformato nel 2x1. In merito ai volumi, stiamo ampliando la numerica delle referenze messe nei panieri promozionali. Quanto al fattore tempo, stiamo dilatando le rotazioni: se prima alcune referenze giravano a volantino o in promo per 2 settimane e quindi poi si cambiava integralmente paniere, adesso, soprattutto per le Marche del Distributore, lo slot è il mese o finanche i 3 mesi, in cui ogni insegna pone buona parte dell’assortimento delle proprie private label con logiche da “garantiti e ribassati” (come recita il nostro claim). Peraltro, alcune nostre imprese lo attuano anche per le referenze a marchio industriale. Non molte, per la verità, poiché questo comporta rischi notevoli se il fornitore, in queste categorie, dovesse aumentare i listini.
Stando all’esperienza che percepite nei vostri punti di vendita, anche nelle diverse insegne, come è cambiato qualitativamente e quantitativamente il carrello della spesa degli italiani?
Sebbene il periodo sia decisamente complesso, ed estremizzo deliberatamente, non è ovviamente paragonabile in alcun modo all’economia della Repubblica di Wiemar, in cui la gente vedeva l’inflazione crescere di ora in ora. I comportamenti che abbiamo avuto modo di osservare e che tuttora rileviamo, si basano, semplificando, su una triplice opzione: risparmiare direttamente sulla quantità, oppure restare fedeli al prodotto/categoria, ma nel contempo facendo downgrading di posizionamento (per esempio, negli acquisti della carne e dei salumi, acquistando i tagli meno costosi), o ancora cercare prezzi inferiori. Tutto ciò porta inevitabilmente ad un impoverimento della transazione. Peraltro, un unico aspetto positivo di questa complessa situazione economica risiede nella maggior capacità dei cittadini-consumatori di sprecare di meno e, sebbene sia per i retailer una sorta di “vendita opportunità persa”, facciamo sicuramente il tifo per vincere gli sprechi, a favore della sostenibilità nutrizionale ed ambientale.
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