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Italpizza è sempre al punto giusto

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Redazione

In tante lingue del mondo fa rima con leader, leader nella produzione e commercializzazione di pizze surgelate e non.

/em> Italpizza ci ha messo poco meno di 30 anni a conquistare il suo primato, lavorando sodo da quando, nel 1991, Cristian Pederzini, tuttora presidente, ne apre i battenti in un piccolo sito nella provincia modenese. Una partenza come tante nel cuore dell’Emilia che produce, e che, come poche, vede nel giro di pochissimo un’impennata nel suo sviluppo tale da diventare interessante per le multinazionali che la rilevano. Quando nel 2015 lo stesso Cristian Pederzini la riacquista, dall’inglese Bakkavor, per Italpizza è una rinascita, un punto e a capo che porta oggi a contare oltre 900 addetti che producono più di 100 milioni di pizze per conto dei principali retailer internazionali e anche a proprio marchio.
Sono 55 i Paesi in cui Italpizza esporta, per un fatturato in continua crescita dal 2007 e che raggiunge 127 milioni di euro del 2018. L’estero rappresenta per l’azienda modenese circa il 55% del mercato.
Fiore all’occhiello di Italpizza è la capacità di industrializzare un processo artigianale che prevede una lievitazione degli impasti per oltre 24 ore, una stenditura e farcitura manuale del prodotto, con cottura in solo forno a legna di quercia e faggio. A certificare questo, che è divenuto modello di produzione e di business le sigle internazionali Brc, Iso 22000 e 14001, Ohsas 18001, Haccp e la certificazione di produzione alimentare biologica. Un modello che implementa continuamente le proprie risorse, come testimonia l’inserimento della quinta linea produttiva avvenuto nel 2018 con cui è stato lanciato l’ultima nata in casa Italpizza: la pizza pala a marchio 12x30.
Di strategia e visione parliamo con
Marco Rossi, Responsabile vendite Italia.

Quanto incide il conto terzi?

Il conto terzi è sempre stato il nostro core business e posso dire, senza timore di essere smentito, che oggi siamo il fornitore chiave di pizze per tutti i maggiori gruppi della Gdo nazionale e internazionale. Le private label hanno un’incidenza sul nostro fatturato del 75%, mentre il marchio aziendale copre il restante 25 per cento.

Che caratteristiche ha il vostro brand?

Il ‘progetto Brand’ è partito 4 anni fa e ha comportato un cambiamento di mentalità rilevante e un nuovo apporto di know how. È stata una vera scommessa, che ci ha però permesso di cambiare le regole del mercato e di creare una nuova categoria. Italpizza è una “pizzeria industriale”, non un’“industria di pizze”, che fa della lavorazione manuale e artigianale il proprio marchio di fabbrica e questo è ciò che ci rende unici. Nonostante un processo produttivo più complesso, il valore che questo rappresenta, ci è stato riconosciuto dal mercato.

In generale è preferita la pizza sottile o quella alta?


Anche se il mercato si sta orientando verso il bordo alto lo spessore rimane oggetto di un vero e proprio dibattito, con tanto di parti opposte e perfettamente equilibrate. Il nostro intento, inutile dirlo, è di assecondare ogni richiesta, ogni preferenza. Ecco perché la nostra 26X38, un brand che corrisponde al formato in centimetri, è rimasta sottile: oltre alle dimensioni notevoli, che assicurano circa 2 porzioni, mantiene le caratteristiche qualitative che la distinguono da ogni altra. Allo stesso tempo sosteniamo con convinzione le altre tipologie di impasti, tipo Napoli a bordo alto, rispetto al quale Italpizza è un riferimento di eccellenza e qualità riconosciuto dalle numerose partnership con i retailer.

Sui mercati esteri come vi posizionate?

Il mercato estero è il nostro punto di forza, con i 55 mercati che oggi serviamo in tutti e cinque i continenti. Anche se l’Europa gioca la parte del leone, esportiamo rilevanti quantità in Usa, Corea, Giappone, Russia, Sud e Centro America, Australia. Oltre confine, in particolare, lavoriamo quasi soltanto sulle private label, anche se la 26x38 comincia ad avere una certa notorietà e diffusione: il forte legame con la Gdo è stato evidentemente un ottimo trampolino di lancio.

Come gestite l’estrema varietà delle ricette richieste per assecondare le preferenze di ogni singola tradizione alimentare nel mondo?

Il made in Italy alimentare è un must, si sa, e questo vale soprattutto per i prodotti simbolo del nostro Paese. L’italianità delle ricette però è un’altra questione, frutto essa stessa di commistioni e incursioni che, nei secoli, l’hanno definita e arricchita. Accogliere, amalgamare stimoli e suggestioni alimentari tipiche di altre culture alimentari non è deviare la nostra originalità ma, anzi, assecondarne la natura e l’origine. Anche questo per noi significa sostenere la diffusione del vero made in Italy. Originalità e rispetto dell’identità, certo, ma anche capacità di assecondare e dunque aprirci alle esigenze di clienti e consumatori finali. È, a dire il vero, uno straordinario stimolo che soddisfiamo attraverso il lavoro prezioso e altamente professionale della nostra squadra di 18 chef, che elaborano per noi un portafoglio di 1.100 codici. Un assortimento attraverso cui assicuriamo, alle tante catene distributive, un prodotto sempre esclusivo e personalizzato. Devo aggiungere, ancora a proposito di estero, che fuori dall’Italia la pizza rimane, in larga parte, sinonimo di ristorazione. Dunque si tratta di creare, innanzitutto, una vera cultura del consumo domestico.

Parliamo di innovazione. Qual è la direzione evolutiva?

La Mdd, come ho accennato, ha alzato molto il proprio livello qualitativo e oggi il lavoro punta sugli impasti - farine integrali, farro, grano saraceno, kamut - per dare valore aggiunto al prodotto e nuovi sapori. Non è uno sviluppo banale visto che la pizza ha già tantissime varianti ed è, almeno in Italia, un prodotto con un’alta penetrazione. Siamo impegnati, anche nel nostro Paese, sul versante della cultura di prodotto: se una pizza cuoce troppo e diventa secca il consumatore tende a dare la colpa al produttore. In questo caso occorre trasferire concetti che sembrano scontati, ma che non lo sono affatto: il rispetto dei tempi indicati sulla confezione, la cottura diretta sulla griglia e non sulla carta forno, per ottenere una ventilazione ottimale a disperdere l’umidità, solo per citare due esempi. Altro elemento innovativo è il packaging. Qui è stato fatto un grande lavoro, che ha dato vita a progetti grafici molto efficaci. Il prossimo passo sarà compiuto verso la sostenibilità, cioè la riduzione dei materiali e la compostabilità delle confezioni.

Considerate il food delivery una minaccia?

Questo canale continuerà a crescere, non c’è dubbio, ma siamo convinti che inciderà soprattutto sul consumo fuori casa e sull’asporto. Su questo versante occorrerà tenere presente che la consegna a domicilio ormai non è solo “pizza”, ma sempre più menu completi, esotici, spesso alternativi. In genere chi acquista il surgelato, del resto, ha già deciso di mangiare a casa o di fare comunque una scorta di prodotti a contenuto di servizio. Non sottovalutiamo di certo il canale emergente del food delivery, ma crediamo che l’industria alimentare debba rispondere a tono, con gamme sempre più incentrate sulla ricerca della qualità e del contenuto valoriale dei prodotti. In questo sforzo tutta la Gdo, discount compresi, ci sta seguendo, con assortimenti che puntano sempre di più sui prodotti gourmet.

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