Consorzio Casalasco: il 'come' conta più del 'quanto'
Consorzio Casalasco: il 'come' conta più del 'quanto'
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di Luca Salomone
Gruppo Casalasco è il leader italiano del pomodoro.
Del resto, ha raggiunto, anche in Europa, notevoli traguardi e non sembra avere accusato le difficolta del momento. Anzi le previsioni sono davvero ottime. Abbiamo fatto il punto con Fabrizo Fichera, direttore marketing e sviluppo della capogruppo, Casalasco società agricola, e vicepresidente di Pomì Usa.
Cosa vuol dire oggi la vostra realtà?
È un vero ecosistema di aziende, che compongono la prima filiera del pomodoro da industria in Italia, terza in Europa e settima nel mondo, visto che, secondo la classifica ufficiale del Wptc (World processing tomato council) abbiamo scalato, per capacità produttiva, 6 posizioni, rispetto al 13° posto del passato. Parliamo di un’organizzazione che, per mezzo della propria cooperativa, Consorzio Casalasco del pomodoro – che conta circa 800 società agricole -, raccoglie e, in seguito, confeziona e vende a una platea di più di 60 Paesi nel mondo, realizzando il 70% dei ricavi oltre confine. Il giro d’affari ammonta a circa mezzo miliardo di euro, con una previsione, per il 2023, di oltre 600 milioni.
Insomma, tanti primati. A cosa li attribuisce?
I motivi da elencare sarebbero tanti, ma il principale, a mio avviso, è di avere sotto lo stesso ‘tetto’ tutta la filiera, dalla selezione del seme, alla fase agricola, a quella industriale e logistica, il che ci rende responsabili, dal punto di vista economico e della sostenibilità, di un insieme vasto e a 360 gradi. Ma avere una produzione record non è tanto importante, quanto lo sono le modalità di coltivazione, trattamento e trasformazione del prodotto. Insomma, il ‘come’ è il punto fondamentale e il nostro ‘come’ tutti lo possono leggere nel bilancio di sostenibilità volontario che, già da 5 anni, redigiamo con Deloitte e che dà conto di tutte le nostre pratiche ambientali, umane, di governance, finanziarie…
Avete anche, come socio, un importante investitore. Questo vi ha cambiati?
Due anni fa, dal dicembre 2021, il gruppo ha visto l’ingresso del fondo QuattroR che ha investito 100 milioni di euro, rilevando il 49% di Casalasco società agricola. Tutto questo ci ha sicuramente rafforzato, ma non ha spostato l’asse dell’azienda, nel senso che è sempre il mondo agricolo al centro del nostro sistema. Le nostre 800 aziende produttive sono l’anello forte della catena, quello che ci distingue dalla maggior parte dei competitor, che invece acquistano la materia prima sul libero mercato. E infatti oggi noi stiamo investendo, più che mai, su questo asset, grazie alla formazione, ai corsi sulla sostenibilità, sulla sicurezza, sull’igiene, sulle buone pratiche, sui diritti sindacali, come dimostra il recente e non unico finanziamento Esg da noi ottenuto. Parliamo di 13 milioni, erogati, ai primi di luglio, da Unicredit e Sace e diretti proprio a supportare la cultura green della nostra filiera.
E per il business?
Ma vede… oggi la sostenibilità non può più essere un elemento separato dagli affari e dalla finanza. Sono due binari paralleli, che devono procedere in modo assolutamente coerente. Da qui un elenco molto lungo di certificazioni, tra le quali Global gap, Global Grasp, Brc, Ifs, Emas, Kosher, Halal, Rspo, Ogm free, che aggiungono valore tecnico ed etico a un prodotto sul quale vale davvero la pena di continuare a investire. Il punto, come le dicevo, è il ‘come’, che conta sempre molto di più del ‘quanto’. La responsabilità sociale vuol dire per noi, fra le altre cose, incentivare e sostenere 2 mila persone che, con contratto fisso o stagionale, trovano occupazione nei nostri 5 stabilimento oltre a coloro che lavorano nei campi e che sono di etnie e lingue molto differenti. È necessario portare tutti allo stesso livello e dunque investire sulle persone.
Passiamo alla materia prima. Quanto ha inciso sui vostri prezzi al consumo?
Partiamo dal concetto di equa ripartizione del valore all’interno della filiera per noi fondamentale. Ma, detto questo, devo fare una lunga premessa. Il prezzo del pomodoro da industria, in Italia, è governato secondo una logica di ‘interprofessione’: questo vuol dire che c’è, da un lato, la produzione che fa capo alle industrie private e, dall’altro, quella che rappresenta le O.P. (Organizzazioni di produttori) di aziende agricole che coltivano il pomodoro fresco da industria. I prezzi sono oggetto di due trattative, una per il Nord e una per il Sud Italia. In questo modo si raggiunge un valore che costituisce la base delle successive transazioni. In ambito cooperativo, però, ciò non accade, nel senso che noi non compriamo pomodoro, ma lo riceviamo dai nostri conferenti, valorizzandolo poi a livello di bilancio. Rimane il fatto che, anche noi, siamo parte di un mercato al quale dobbiamo adeguarci. Negli ultimi anni il prezzo del pomodoro è progressivamente salito in modo consistente, permettendo di superare un problema tipico di un passato in cui il prezzo, in euro per tonnellata, non era certo remunerativo e incentivante per l’agricoltore. Parliamo oggi di 150 euro a tonnellata contro i vecchi 108,5 euro.
E non avete risentito di tutto questo?
Non voglio dire questo, ma solo che ci ha fatto piacere constatare che il mondo sta finalmente comprendendo, per amore o per forza, che deve esistere un concetto di valorizzazione dell’agricoltura più equa, meno speculativa, in cui il settore primario non va ‘spremuto’, ma vissuto come la parte decisiva della filiera. Certamente la risalita dei prezzi è stata significativa, ma l’impatto non è stato pericoloso, o insopportabile. Un derivato del pomodoro, in qualsiasi forma, non è una semplice commodity, visto che comporta tutta una serie di controlli su ogni fase (coltivazione, lavorazione e confezionamento), le quali aggiungono costi, ma anche valore. Detto altrimenti: se il prodotto finito arriva al consumatore a un prezzo medio di circa 2 euro al kg/netto (un prodotto per l’altro), l’incidenza della materia prima può pesare per circa il 20% (quindi al massimo 35/40 centesimi), mentre tutto il resto è dovuto principalmente al costo degli imballaggi, utenze, ai procedimenti industriali prima e poi alla logistica e alla distribuzione. E gli aumenti che pesano di più avvengono proprio qui e sono dovuti, fra l’altro, all’energia che, nonostante le ultime attenuazioni, ha avuto un costo crescente almeno dalla seconda metà del 2021, con un picco massimo nell’agosto 2022, un mese in cui gli impianti funzionano ininterrottamente. Ovviamente il prezzo del prodotto finito è aumentato un po’ e il mondo dei consumatori si è diviso fra coloro che sono disposti, o possono spendere qualcosa in più per continuare ad avere un prodotto di qualità e coloro che hanno voluto, o dovuto puntare su alimenti di fascia più bassa.
Queste scelte dipendono solo dai redditi?
Certo che no. Tante decisioni sono in funzione del valore che si dà alla spesa e alla tavola nelle priorità di una famiglia. È sicuramente possibile che si scelgano, nei negozi alimentari, prodotti economici pur avendo un reddito piuttosto alto, perché si preferisce investire di più su divertimento, vacanze, sport, uscite serali… Questo non vuole certo sminuire il peso dell’inflazione, che ha inciso in modo particolarmente forte sul settore alimentare (oltre il 10% contro una media del 7-8 per cento per le altre spese di casa) rimescolando le carte in tavola. Per parte nostra continuiamo a pensare che vada soprattutto salvaguardata la giusta remunerazione del mondo agricolo, dove gli eventuali rincari, se ragionevoli, riusciamo a gestirli.
Formati e prodotti. Quali sono, oggi, i best seller?
Fra i beni di uso quotidiano vince sempre la passata da 700 grammi in bottiglia di vetro ma, a livello globale sono in forte crescita anche altri prodotti, specie se in confezioni a minore impatto ambientale, come gli imballaggi in carta riciclabile. Per esempio, noi abbiamo adottato, per i tappi dei brick, una nuova mescola a base di canna da zucchero, che sostituisce la classica plastica. C’è una diffusa ricerca di sostenibilità, la quale riguarda soprattutto i prodotti senza ingredienti aggiunti, che, essendo i più consumati, potrebbero avere un impatto maggiore quando il packaging diventa un rifiuto. Vedo poi un’altra tendenza interessante, che consiste nel chiedere qualcosa di più anche ai beni più semplici: dunque provenienze regionali, varietà di pomodoro ciliegino o datterino, oppure biologico, o, ancora, alto contenuto di licopene. Magari il consumatore, oggi, usa meno prodotto, ma vuole che sia di qualità, secondo la logica del ‘poco, ma buono’. E infatti hanno successo formati un po’ più ridotti e le confezioni da un chilogrammo diventano un po’ un ricordo, per lasciare posto, in prima battuta, a quelle da 750 grammi, ma anche ai formati da 350 grammi.
Possiamo dire che il pomodoro è un prodotto maturo?
Possiamo dirlo e in fondo è vero. Ma tenga conto che i margini di crescita sono notevoli, visto che i derivati del pomodoro non pongono barriere al consumatore: sono adatti a chi, per motivi religiosi, adotta regimi halal o kosher, a chi non deve assumere sodio, a chi vuole condurre una dieta ipocalorica. Nel mondo il pomodoro viene addirittura usato come bevanda. Per conseguenza il consumo mondiale, sia del fresco che lavorato, è sempre in salita.
Avete grandi marchi, ma operate anche come terzisti. Come si ripartisce il vostro fatturato?
I nostri marchi, Pomì e De Rica, rappresentano oggi il 17-18 per cento dei ricavi. Poi c’è una quota di unbranded e foodservice, cioè di grandi formati destinati soprattutto all’industria e all’Horeca, che valgono un altro 17-18 per cento. Il restante 65% è formato da due grandi categorie: copacking per le altre industrie e private label per la Gdo. Parlando dei nostri marchi osservo che Pomì e De Rica hanno due posizionamenti molto differenti. Pomì è nato nel 1982, quando tutto era, o pareva, entusiasmante, fresco, innovativo. Dunque, è molto radicato, con valori positivi, nel vissuto del consumatore ed è distribuito in oltre 50 Paesi, costituendo il nostro ‘cavallo di battaglia’. De Rica nasce negli anni Sessanta, precisamente nel 1963, ha un vissuto più classico e blasonato, una distribuzione più limitata, un posizionamento più alto e combatte con marche che hanno una collocazione nel segmento premium, dunque più elevata rispetto agli standard di mercato.
Parliamo di export. Quali sono i vostri Paesi chiave?
Se l’Italia rappresenta il 25% dei nostri ricavi, tutta l’arena europea, esclusa la nostra nazione si attesta intorno al 55% e questo perché, nel nostro Continente, i consumi sono molto forti, simili a quelli della nostra Penisola, in Germania, Francia e Gran Bretagna. Ma volano alti anche i mercati di Austria, Belgio e Olanda. La Spagna invece è, praticamente, autosufficiente, ossia consuma il proprio prodotto, senza lasciare molti margini alle imprese straniere. Se usciamo dall’Europa primeggia il Nordamerica, un mercato al consumo che vale 5 o 6 miliardi di dollari e dove, a vincere, sono la salsa ketchup e, poi, i sughi pronti, seguiti, a molta distanz,a dai prodotti base non ricettati. Del resto, non dimentichiamo che la California è il primo produttore mondiale di pomodoro, con un autoconsumo Usa che arriva al 90 per cento. Nonostante questo, noi abbiamo una filiale, Pomì Usa Inc., con sede a Manhattan e tre magazzini distributivi: Pomì, infatti, è da sempre presente negli States dove raggiunge 20 mila punti vendita ed è posizionato e riconosciuto come premium.
E le nazioni ad alta crescita?
Sono a Est, a partire dal Medio Oriente, con stili di vita che diventano sempre più raffinati. L’Estremo Oriente, dal canto suo, è guidato, per noi, dal Giappone, dove realizziamo ottime vendite. Molto interessante è anche il Sud Est asiatico. Purtroppo, invece India e Cina che, una volta sommate, vogliono dire tre miliardi di persone, non consumano conserva di pomodoro. Gli indiani utilizzano sì tanta verdura e frutta fresca, ma non hanno, al momento, una vera propensione per il conservato. I cinesi sono un po’ più flessibili, visto che stanno cominciando ora ad accostarsi al prodotto e a integrarlo un po’ nella propria dieta. Sono due frontiere, insomma, ancora da scoprire, ma che promettono un futuro interessante.
Ultima domanda: come si integrerà Emiliana Conserve nel vostro perimetro?
L’acquisizione è stata perfezionata il 4 luglio 2022 e dunque Emiliana viene consolidata nel nostro perimetro di bilancio solo per il secondo semestre 2022. Le società restano indipendenti, seppure sotto lo stesso controllo. Si tratta di un’operazione che ci porta non solo a una crescita dimensionale molto significativa, ma anche ad abbinare la nostra cultura con quella di un’azienda che ci era già molto affine.
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