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Industria di marca asset strategico per l'Italia

Centromarca, industria di marca asset strategico per il Paese
Francesco Mutti, presidente di Centromarca

Industria di marca asset strategico per l'Italia

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redazione

Ben 2.600 grandi marchi alimentari e non food, tra i più noti e apprezzati dai consumatori, costituiscono il portafoglio delle 193 industrie aderenti a Centromarca. Aziende che complessivamente sviluppano in Italia un giro d’affari di 67 miliardi di euro, occupano 100mila addetti, valgono il 24% del mercato pubblicitario e contribuiscono a generare nella filiera del largo consumo 87 miliardi di valore condiviso, pari al 4,2% del pil. 

Con queste credenziali l’Associazione italiana dell’industria di Marca si è presentata il 9 giugno alla Borsa di Milano, davanti a 400 imprenditori e manager del largo consumo e del suo indotto, per celebrare i 60 anni di attività in occasione del convegno “Valori della Persona e Valore della Marca - Risposte sostenibili alle istanze del presente”.

«I prodotti di marca rappresentano l’eccellenza: esprimono innovazione, sostenibilità, qualità e valori che li distinguono in tutto il mondo – ha sottolineato Francesco Mutti, presidente di Centromarca –. E le nostre industrie sono un asset strategico per lo sviluppo dell’economia italiana, investono, contribuiscono in modo significativo al prodotto interno lordo e alla bilancia commerciale, creano occupazione e valore».

Nel suo intervento Mutti ha anticipato che Centromarca elaborerà con altri attori della filiera e presenterà al Governo, in autunno, proposte di policy per sostenere la competitività del Paese, delle imprese e del settore largo consumo. Tra le priorità individuate ci sono: incentivi per favorire la crescita dimensionale delle aziende e l’innovazione; semplificazione burocratica; il sostegno alle transizioni ecologica e digitale; tutela della proprietà intellettuale.

«Abbiamo bisogno di una politica industriale coordinata, coerente e di una visione di lungo periodo – ha rimarcato Mutti –. E di un contesto regolatorio con poche norme, ma certe, perché l’eccesso danneggia la certezza del diritto e rende più complicato colpire le illegalità del sistema».

Secondo le evidenze dell’ultima edizione dell’Indagine Congiunturale Centromarca - realizzata sulle industrie associate, in collaborazione con Ref Ricerche nel mese di aprile 2025 - quest’anno il 55,4% delle aziende manterrà invariati gli investimenti e il 34,7% li rafforzerà. Dalla ricerca emerge che nel 2024, seppur in un contesto critico di mercato, il 55,7% delle industrie ha mantenuto gli impieghi in linea con gli anni precedenti e il 38,5% li ha aumentati. Tra i principali ambiti di destinazione delle risorse economiche si segnalano: impianti e macchinari (66,1% del campione), software (51,6%), altri impieghi immateriali (36,3%), attrezzature informatiche (31,5%), intelligenza artificiale e big data (25,8%).

Per far fronte agli elevati costi dell’energia il 49,2% del campione ha migliorato l’efficienza e ridotto i consumi, il 44,9% ha investito in fonti rinnovabili, il 10,2% ha diversificato le fonti, l’8,5% ha modificato i processi produttivi. Per il 2025 resta elevata la preoccupazione di un aumento del costo dell’energia. Le scorte di prodotto sono considerate nella norma dall’82,8% delle aziende, la liquidità adeguata dall’83,6%, il numero di addetti stabile dall’84,4% (l’11,5% li prevede in aumento).

Il 19,5% delle industrie rivela frequenti difficoltà nel reperire personale qualificato; il 61,0% “qualche volta”. Tra i fattori critici nell’attività di reclutamento, il 69,5% del campione indica la scarsa disponibilità di candidati, seguita dalla forte concorrenza tra aziende per lo stesso tipo di figure (27,1%) e dalle insufficienti competenze maturate nei percorsi formativi (14,4%).

Le imprese guardano all’anno in corso con moderato ottimismo, in considerazione dei segnali incoraggianti che iniziano a emergere, in particolare nella moderna distribuzione, dove nel primo quadrimestre 2025, rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, il segmento grocery ha registrato una crescita di circa tre punti percentuali, con le vendite che hanno superato i 31 miliardi di euro (dato NIQ cumulato gennaio-aprile 2025). Tuttavia, non si osserva ancora una ripresa stabile dei consumi, che restano deboli in prospettiva anche a causa di un contesto economico incerto e di una fiducia dei consumatori solo parzialmente in ripresa.

La marca come attore sociale
Nel corso del convegno sono state riassunte evidenze di un’indagine, svolta dall’associazione in collaborazione con Swg, sul vissuto degli italiani rispetto ai cambiamenti in corso nelle politiche per il cittadino, nella dinamica dei consumi, nel mondo del lavoro e sull’evoluzione del ruolo della moderna industria di marca nei nuovi contesti. Dallo studio emerge che per il 71% degli italiani le marche più note sono dei veri e propri attori sociali, che possono contribuire attivamente al benessere collettivo in una fase di intensa trasformazione del welfare. La gran parte della popolazione (81%), per altro, ne riconosce l’impatto positivo dell’attività sull’economia e le considera motori di sviluppo, occupazione e innovazione.

I valori distintivi dell’industria di marca assumono particolare rilievo quando si tratta di individuare le caratteristiche dell’azienda in cui si vorrebbe lavorare. La Gen Z, per esempio, tende a orientarsi verso imprese impegnate nella sostenibilità e con una visione internazionale, mentre i baby boomers si riconoscono in realtà che difendono la tradizione italiana e investono nelle comunità in cui operano. È importante sottolineare che “impegno nella sostenibilità”, “investimenti nella comunità”, “difesa della tradizione italiana” e “visione internazionale” sono i quattro valori più riconosciuti dagli italiani come fondanti dell’identità di marca. Non si tratta di valori alternativi, ma complementari: possono coesistere e insieme costruire un’identità aziendale più ricca, credibile e sfaccettata, capace di parlare a pubblici diversi, uniti dalla ricerca di senso e appartenenza.

La marca protagonista dei consumi
La scelta di acquistare un prodotto di marca oggi non è solo una questione di qualità: è una dichiarazione di intenti. Per metà degli italiani, privilegiare un brand significa “prendere posizione”, scegliere aziende che rispettano standard elevati, non solo produttivi, ma anche etici e valoriali. Il fenomeno è particolarmente marcato per le nuove generazioni: il 55% della Gen Z e il 56% dei Millennials considera l’acquisto un modo per sentirsi parte di qualcosa di più grande.

Non si tratta di “semplici” consumatori, ma di tribù digitali che si riconoscono nei valori della marca, la seguono, la condividono, la vivono. In questo scenario prende forma la phygital revolution: il 91% degli italiani utilizza il digitale lungo il processo d’acquisto. Il 53% confronta i prezzi online, il 47% cerca informazioni su caratteristiche e recensioni, ma poi vuole toccare, vedere, sperimentare. Infatti, il 29% sceglie ancora di concludere l’acquisto nel punto vendita fisico. Si rivelano marche vincenti quelle capaci di creare esperienze significative, che parlano alle persone, che costruiscono identità.

La Marca e il mondo del lavoro
Negli ultimi dieci anni, il sogno dell’imprenditoria autonoma ha subito un forte ridimensionamento, passando dal 45% al 33% di preferenze, mentre cresce l’attrattiva per il lavoro dipendente, segno di un profondo cambiamento culturale nelle aspettative delle persone. Tuttavia, nonostante questo mutato scenario, il tema del reperimento di manodopera qualificata resta centrale per molte aziende.

L’indagine Swg evidenzia che un dipendente su due beneficia già di servizi offerti dall’azienda in cui lavora. Potendo scegliere i lavoratori esprimerebbero preferenze precise: il 53% opterebbe per i rimborsi medici, il 42% sceglierebbe le convenzioni sanitarie e il 27% indicherebbe viaggi e soggiorni di cui usufruire nel tempo libero. La preferenza per servizi che contribuiscono alla costruzione del proprio benessere personale emerge in modo nitido.

La ricerca fotografa anche l’impatto dell’intelligenza artificiale, facendo emergere un paradosso generazionale: la Gen Z, pur essendo nativa digitale, è quella più spaventata dall’IA. Chi è cresciuto con la tecnologia sembra percepire maggiormente i rischi in ambito lavorativo, rispetto alle generazioni che l’hanno incontrata più tardi nel loro percorso professionale. Ma come vedono gli italiani il futuro del lavoro con l’arrivo dell’IA? Il 42% prevede un aumento del livello delle competenze richieste; un altro 42% immagina una maggiore efficienza e produttività; il 41% teme una diminuzione dei salari; il 40% auspica una riduzione dei carichi e dei ritmi di lavoro. 

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