E’ stimato in oltre 160 euro annui per famiglia l’impatto della Iva al 22%. La raffica di rincari colpisce moltissime voci: elettricità, gas, telefonia, vino, birra, liquori; abbigliamento, calzature, arredamento, borse, valigie ed altri effetti personali; elettrodomestici, mobili, servizi domestici, detersivi, stoviglie e affini; lavanderia e tintoria; giochi e giocattoli, cancelleria, prodotti per la cura personale, parrucchiere, istituti di bellezza; piante e fiori, gioielleria, bigiotteria e orologi; radio, televisori, hi-fi e videoregistratori; computer, calcolatrici, auto, ricambi, lubrificanti, carburanti, riparazioni di tutti i beni elencati, servizi di liberi professionisti. Il gettito sarà di 2 miliardi nella seconda metà del 2013 e di 4 nel 2014. Un vero bagno di sangue, anche perché è molto difficile che il sistema industriale e distributivo riesca a contenere ancora i rincari.

Il mondo imprenditoriale non sta al gioco e scrive a Enrico Letta: “Illustre Presidente del Consiglio, riteniamo necessario segnalare la gravissima preoccupazione da parte delle imprese per l’ulteriore rallentamento dei consumi che l’aumento dell’Iva previsto per luglio di quest’anno provocherebbe nella situazione di acuta recessione che sta caratterizzando in particolare i primi mesi del 2013. Le più recenti stime effettuate da centri studi e istituti specializzati indicano, a regime, l’impatto di questa misura in un aggravio di costi pari a oltre 160 euro a famiglia, fatto tanto più grave in considerazione dei 9 milioni di famiglie che versano in situazioni di difficoltà economica, di cui 5 milioni a rischio povertà. L’aumento dell’Iva avrebbe effetti sul settore distributivo, su quello della produzione industriale, sull’agricoltura e sul mondo dei servizi, che operano sul mercato interno, con rilevanti conseguenze anche sui livelli occupazionali. Si andrebbe in questo modo a deprimere la domanda interna, che deve al contrario essere rilanciata come motore propulsivo della crescita e del Pil. Auspichiamo fortemente che il Governo, pur in una situazione di difficoltà nel recuperare risorse, trovi una soluzione definitiva a questo difficile problema, dando così un chiaro segnale ai consumatori italiani e alle imprese che hanno ancora la volontà di investire in questo Paese”.

I firmatari sono Federdistribuzione, Ancc Coop, Ancd Conad, Federalimentare, Centromarca, Agrinsieme (Associazioni agricole), Federlegno Arredo, Ceced Italia (Associazione nazionale produttori di apparecchi domestici e professionali), Assogiocattoli, Afi (Associazione fonografici italiani), Fimi (Federazione industria musicale italiana) e Univideo (Unione italiana editoria audiovisiva).

Mancano all’appello i rappresentati della piccola distribuzione che tuttavia sono altrettanto scandalizzati e preoccupati. Citiamo per tutti Confcommercio. Parlando a Perugia il Presidente, Carlo Sangalli, ha spiegato: ''L'aumento dell'Iva provocherebbe ulteriori chiusure di esercizi occupazionali e quindi un nuovo aumento della disoccupazione. Colpisce soprattutto le famiglie con il reddito più basso, quindi aumentando il disagio sociale e aumentando l'area dell'assoluta povertà e mettendo a rischio coesione sociale e unità del Paese. Il premier Letta deve fare di tutto per ricostruire l'occupazione, e questo si può fare con la crescita, e la crescita la si rilancia sollecitando la domanda interna, che vale l'80% del Pil. Ma la domanda interna è oggi desolatamente ferma. La nostra preoccupazione profonda è che si stia passando dalla crisi economica alla crisi sociale: si potrebbe ampliare l'area della povertà assoluta arrivando a superare i 4 milioni di persone. Servono subito dei provvedimenti che frenino questo processo: semplificazione del mercato del lavoro, meno burocrazia e riduzione del costo del lavoro”.

Tutti d’accordo dunque su un “no” fermo e deciso. Peccato però che le lotte intestine fra la gdo e gli esercenti più piccoli continuino, non si sa in nome di cosa, dato che l’obiettivo di tutti dovrebbe essere quello di aumentare i fatturati, favorire l’occupazione, incentivare il consumatore e sfruttare ogni occasione di business.  E invece già da due Regioni, Lombardia e Campania, è stata varata una moratoria per bloccare le aperture dei centri commerciali e Confesercenti, Cei (Conferenza episcopale italiana) e altri soggetti, riuniti nel movimento Liberaladomenica, sponsorizzato dal M5S, nanno raccolto un numero di firme tale da portare davanti al Parlamento una legge di iniziativa popolare tesa a bloccare le aperture festive, o almeno a riportare le autorizzazioni nelle mani degli enti locali.

E’ vero che senza porre un freno alla Liberalizzazione Monti, come scrive il sito di Liberaladomenica, altre 80.000 piccole imprese commerciali chiuderanno presto, allungando un già tragico e lunghissimo bollettino di morte, ma è altrettanto vero che gli investimenti sono calati mediamente, nel settore della gdo, del 35% nel 2012 rispetto al 2007, generando ulteriore disoccupazione.

Il gioco dei politici è semplice. Mettere piccoli e grandi l’uno contro l’altro, per confondere le acque e le menti e per non investire un soldo sullo sviluppo. Il piccolo commerciante può competere con il supermercato e l’ipermercato, a patto però di avere, a condizioni agevolate, le risorse per fare impresa in modo serio, magari mediante il franchising o sviluppando plus che la gdo non potrà avere mai: maggiore specializzazione, assortimento più profondo, maggiore legame fiduciario con il cliente, servizi personalizzati ecc. La questione vera non è tenere chiuso o aperto la domenica – fatto superato e ridicolo con un commercio elettronico aperto 24 ore su 24 -, la questione vera è fare marketing, ma per fare marketing ci vogliono soldi: e sono questi, appunto, che lo Stato non vuole e non può nemmeno mettere.