Nonostante il perdurare della recessione, o forse proprio per questo, e in barba all’arretramento generalizzato degli investimenti pubblicitari che, è un dato di settimana scorsa, hanno perso ben 3 miliardi di euro negli ultimi 5 anni, emerge uno nuovo mezzo, potente, sempre più strategico, ma anche complesso e delicato da gestire, perché questa volta gli spender sono coinvolti direttamente, devono essere educati e tempestivi e il dialogo si svolge in un’ottica strettamente “one to one”. Parliamo, come avrete capito, dei social network, veri protagonisti dell’ultima edizione dei DM Awards, il premio che ogni anno incorona i migliori siti del largo consumo secondo i voti espressi dai diretti utilizzatori.

Eugenia Burchi di Blogmeter, società che ha analizzato, per conto della nostra testata, 38 insegne della gdo alimentare e non, valutandone le pagine Facebook e i profili Twitter in lingua italiana, spiega che emergono una serie di evidenze. I marchi del non-food sono più evoluti sui social network di quelli del food e dunque, soprattutto per questi ultimi, c’è spazio per creare nuove pagine e profili e/o per fare crescere quelli già esistenti. 

Sia su Facebook che su Twitter i contenuti che funzionano meglio sono quelli più coinvolgenti per i fan, in cui vengono chiamati in causa come persone e non solo come clienti. Il dialogo diventa non solo auspicabile, ma è persino dato per scontato: fan e follower si aspettano risposte in tempi brevi alle domande che pongono. Fan e follower apprezzano quando la loro fedeltà viene riconosciuta e hanno ‘qualcosa di più’ perché seguono il profilo/pagina (promozioni ad hoc, sharing di contenuti esclusivi). Il più importante: i brand sono già su Facebook e Twitter tramite i contenuti postati dagli utenti e i profili ufficiosi. E’ preferibile quindi essere presenti con profili ufficiali in modo da interagire direttamente e costruire valore con la comunità. 

Detto questo, tanto per fare nomi, la pagina Facebook più famosa della gdo nazionale è quella di Lidl Italia, con oltre 150.000 fan. Qui ogni contenuto postato dall’azienda ottiene in media più di 250 reazioni, tra like, share e commenti. Il 96% dei contenuti è costituito da fotografie.
Davvero impressionante anche il caso del profilo Twitter de La Feltrinelli, con 369.000 follower e un tasso di reazione da parte dell’azienda praticamente immediato, con informazioni, dettagli e consigli.
Da notare che nella top ten delle insegne non alimentari attive su Facebook si staglia come un colosso Euronics, che da tutti i punti di vista batte la concorrenza con un margine del 50% e oltre. Tra i grandi perfomer il campione è Ikea, che integra oggetti mediali e multimediali come Youtube e Instagram e che, in caso di problemi con i consumatori e/o i lavoratori, apre tutti i canali al dialogo, utilizzando così Internet 2.0 anche in chiave di crisis management. Machiavellici questi svedesi, anche perché in parecchi casi ancora oggi le imprese, quando il colore dell’allarme vira dal giallo al rosso, si trincerano dietro a un improduttivo “no comment” perdendo il controllo e, dunque la gestione, dell’opinione pubblica e della stampa.

Tutto questo vuole dire in fondo una sola cosa: dall’altra parte dei nostri pc, o più spesso tablet e smartphone, c’è uno staff costantemente vigile, 24 ore su 24, 7 giorni la settimana, per risponderci, ribattere, rilanciare. E questo presuppone un buon investimento iniziale in risorse umane competenti, capaci di moderare il dibattito e contenerlo nei limiti di una certa etichetta, e una grande spesa in attrezzature informatiche aggiornate ed efficienti. Non è pensabile in questo caso addurre scuse patetiche, legate, magari, a un server temporaneamente fuori servizio.

Si è prima accennato, di sfuggita, ai device più potenti per mantenere un dialogo con i fan/consumatori. Qual è il migliore, quello che ci segue ovunque, che ci permette di lavorare, ma anche di ingannare il tempo durante i momenti morti, in tram o in treno? Ovviamente lo smartphone. Oggi quasi tutti i telefoni sono perennemente collegati a Internet e, tramite le apposite apps, che del resto si trovano di solito preinstallate, al mondo social. Su questo punto si è soffermata Carolina Gerenzani, account director di Tns Italia.

Immaginando le varie attrezzature come altrettanti touchpoint, e saltando subito alle conclusioni – la relazione di Gerenzani è generosissima di dati, comparazioni e percentuali – il mobile emerge in tutta la sua forza. Secondo il consumatore il cellulare presenta, rispetto al tradizionale pc, alcuni elementi decisivi: “è sempre con me, è essenziale nella mia vita, voglio essere always on”. Oggi, direttamente sul punto di vendita, con uno smartphone anche da un centinaio di euro – non è essenziale avere l’ultimo modello con un marchio di grido – si possono fare direttamente confronti di prezzo spietati che possono mettere all’istante il retailer classico al tappeto. Un solo esempio, tratto dall’esperienza personale di chi scrive. Sono in una libreria di Milano. Un volume mi piace da morire, ma costa 20 euro (19,99 per la precisione) e io oggi ne ho davvero già spesi troppi. Prendo il telefono, richiamo il sito di Ibs e scopro due e tre cose interessantissime: Ibs mi consegna il prodotto senza spese di spedizione (sono un cliente top), con il 15% di sconto, entro due giorni lavorativi e, per giunta, scarica sulla mia carta Nectar un bel po’ di punti. E, in secundis, se proprio io non fossi un accanito collezionista, mi potrei anche accontentare di un esemplare usato, o della versione e-book, che porterei a casa con appena 8-9 euro. Faccio il log e concludo la transazione, uscendo tutto soddisfatto dalla libreria fisica, ottimo luogo per ispirarsi, ma pessimo per comprare. 

E ci sono decine e decine di altri casi in cui il mobile può diventare per il negoziante sprovveduto, una vera ghigliottina, un giudice che non concede appelli. E questo specialmente constatando che i grandi concorrenti del nostro libraio hanno una app dedicata, che gira per lo meno sui due sistemi operativi più diffusi: iOs di Apple e Android di Google. Così non c’è neanche la scomodità di aprire il browser, trovare la pagina e magari inserire a mano user e password. Basta cliccare su un’iconcina che sa tutto di noi.

“Il mobile – conclude dunque Gerenzani - rappresenta per le marche e i retailer uno strumento in grado di fidelizzare sempre di più il consumatore, coinvolgendolo a 360 gradi nel processo di acquisto. E’ un canale immediato con cui comunicare nuove promozioni o nuovi prodotti (basati su analisi dello storico), integrando i messaggi tra canali mobile e in store, attraverso il quale far vivere un’esperienza d’acquisto più coinvolgente. Saranno vincenti quei marchi che - attraverso App – consentiranno al cliente di risparmiare tempo, denaro, fatica”.

Non è ancora tutto. Trade Lab-Indicod Ecr, interrogando 260 insegne del non-food, rappresentative di un totale di 29.700 punti di vendita, ha fatto l’avvocato del Diavolo. Va bene “essere digitali”, come diceva già una trentina di anni fa Nicholas Negroponte, ma ne vale la pena? Ossia: questo consumatore evoluto, che arriva a sfoderare il suo smartphone sul punto di vendita per mettere alla gogna il negoziante, non sarà soltanto un fissato, magari un giovane nerd, con pochi soldi in una tasca e il telefonino del babbo nell’altra, invece di essere l’affioramento della punta di un iceberg? Vediamo subito. Intanto c’è il lato dell’offerta. Le pagine ufficiali Facebook sono in crescita del 21% e vengono aggiornate almeno una volta nelle 24 ore (il che è pochissimo, francamente). Dal lato della domanda si osserva che la progressione dei fan è molto elevata e segue un ritmo di quadruplicazione. Su Twitter le cose per certi versi peggiorano e per altri migliorano: lo strumento ha un vissuto più giovanile e i contenuti da veicolare sono ridotti dai limiti del mezzo (un tweet non deve andare oltre i 140 caratteri, ossia una trentina di parole). Tuttavia qui i tempi di aggiornamento crescono e toccano le 2 volte nelle 24 ore (siamo ancora su livelli bassissimi e anche se Twitter non è una chat non bastano davvero). Eppure ci sono, e sono in aumento, le società che danno consulenza su come ottenere visibilità e non annoiare anche in 140 caratteri e questo vorrà dire qualcosa. Ma cosa?

Per rispondere facciamo grazia ancora una volta agli eventuali lettori dei dati e delle proiezioni, e saltiamo alle conclusioni di Giuseppe Convertini, consulente TradeLab e project leader dell’Osservatorio non-food di Indicod-Ecr. “Per le imprese appare sempre più importante essere presenti sui social network, ma non tutte ne sfruttano le reali potenzialità. Ci sono poche “best practice” e molte insegne restano inattive nel tempo: potrebbe essere dannoso per l’immagine dell’azienda? Alcune attività di marketing strategico (riposizionamento, segmentazione ecc.) potrebbero progressivamente passare dai social network. Gli acquisti si decidono sempre più spesso nel punto vendita: occhio alla oramai diffusa “connettività in movimento”. In prospettiva le insegne potrebbero sfruttare maggiormente le potenzialità dei social network (media poco costosi rispetto ad altri): trarre consigli, conoscere più a fondo i propri utenti e personalizzare l’offerta (anche vendere?) Le aziende dovranno gestire la complessità generata dall’integrazione di tutti i punti di contatto (sito web, media tradizionali, punti vendita, social network). In alcuni comparti, brico e bambino, dove la rassicurazione e la formazione sono determinanti, i social network sono ancora sottovalutati”. Imprenditore avvisato, mezzo salvato.