Questa settimana, e precisamente il primo marzo, anche se con qualche lieve differenza di calendario da città a città, si sono chiusi ufficialmente i 60 giorni canonici dei saldi invernali. Niente di nuovo. Ci si aspettava una débâcle e débâcle è stata.

Se non esiste ancora un dato aggregato a livello nazionale i segnali che cominciano ad affluire da alcune città sono di per sé fin troppo eloquenti e confermano che la crisi, il senso di sfiducia, la disoccupazione, il calo dei salari, la riduzione del credito al consumo, hanno scaricato anche in questo caso sul commercio e sul consumatore tutto il loro potenziale. E a gettare benzina sul fuoco è venuto il saldo Imu.

Le prime accorate lamentele arrivano dalle sedi locali di Confcommercio e dalle varie Ascom, riprese puntualmente dai giornali locali.

Nella Capitale il conto si è chiuso con un -15% che va a sommarsi a un dato 2012 già negativo. Particolarmente penalizzati oggettistica e complementi di arredo, mentre l’abbigliamento ha fornito, nelle ultime settimane qualche lieve segno di rimonta, ma solo quello di fascia medio-bassa, in quanto il fashion ha incassato un -20%. Nelle periferie è andata malissimo: -20% rispetto al -3% del centro storico. In sostanza non si può nemmeno parlare di veri saldi, ma di un comportamento di normale shopping.

Anche a Torino i commercianti fanno i conti. Si parla di un cedimento di 7 punti, da sommare al -6,5% dell’inverno 2012. A reggere sono stati, in particolare e stranamente, l’abbigliamento uomo e l’intimo donna. Lo scontrino medio, anno su anno, è passato da 119 a 105 euro.

A Padova un’indagine lampo condotta dalla locale Ascom ha dato voce ai commercianti: per il 71,43% le vendite sono state in calo, mentre per il 24,2% sono rimaste invariate. Solo il 4,37% afferma di essere andato meglio, riferisce Adn Kronos, che prosegue: “Il 58,14% dei commercianti intervistati dice che i clienti hanno sicuramente acquistato meno sia per importo che per qualità; il 7,14% dice che hanno acquistato di più sia per importo che per qualità; il 21,43 sostiene che sono diminuiti i capi/calzature ma è aumentata la qualità e infine il 14,29 che sono aumentati gli acquisti ma sono stati di minore qualità.

“Nihil sub sole novi”, come dicevano gli antichi romani, ma sicuramente molto su cui riflettere, anche per le nuove forze politiche, quando avranno finito di studiare le varie possibili combinazioni del numero 3 e si degneranno di capire che, fuori dalle aule, c’è un Paese da rilanciare e molti italiani da riconfortare, che nemmeno ottengono più soldi a prestito.

A dirlo è Unimpresa, l’associazione delle pmi. Nel 2012 i prestiti sono crollati di quasi 38 miliardi di euro. Risultano in crescita, invece, i finanziamenti alla pubblica amministrazione saliti di oltre 20 miliardi. Nel dettaglio, i prestiti alle imprese e alle famiglie sono diminuiti dai 1.512,5 miliardi del 2011 ai 1.474,7 miliardi dell'anno successivo con una riduzione di 37,7 miliardi (-2,5%).

La rilevazione, realizzata su dati della Banca d'Italia, mette in luce dunque le enormi restrizioni sul versante degli impieghi da parte delle banche italiane. Il capitolo imprese è quello più drammatico. I prestiti sono precipitati da 894 miliardi a 864,6 miliardi facendo registrare una contrazione di 29,4 miliardi (-3,3%).

Anche le famiglie sono rimaste a bocca asciutta. In totale la sforbiciata ai prestiti bancari è stata pari a 8,3 miliardi: lo stock di finanziamenti è calato dell'1,4% scendendo da 618,4 di fine 2011 a 610,1 di fine 2012. Male il mercato dei mutui, che poi ha causato una forte diminuzione delle compravendite immobiliari e, a cascata, un sensibile calo del fatturato del comparto dell'edilizia. E' di 2 miliardi la riduzione dei "finanziamenti per la casa" (-0,6%) passati da 367,6 miliardi a 365,5 miliardi. Ancora più sensibile la contrazione nel settore del credito al consumo che è stata di 4,4 miliardi (-6,9%), con lo stock calato da 64,1 miliardi a 59,7 miliardi. Pure le altre forme di finanziamento (tra cui i prestiti personali o il leasing) hanno risentito del credit crunch e sono diminuite di 1,8 miliardi (-1%) da 186,6 miliardi a 184,8 miliardi.

Sorride, come accennato, solo il comparto pubblico. Nel 2011 i prestiti bancari alla pubblica amministrazione erano arrivati  a 1.969,9 miliardi e a fine 2012 erano a quota 1.990,5 miliardi con un aumento di 20,5 miliardi (+1%).

"In un nostro recente sondaggio - commenta il presidente di Unimpresa, Paolo Longobardi - abbiamo messo in evidenza come molti imprenditori, 3 su 5, sono costretti a ricorrere ai finanziamenti per pagare le tasse. E' il segnale peggiore. Di denaro allo sportello ne viene erogato sempre meno e quel poco che arriva nelle casse delle aziende viene usato per rispettare, laddove possibile, gli adempimenti tributari".

Il motivo di tanta durezza lo spiega Cgia di Mestre: “Dall'inizio della crisi i titoli di credito che alla scadenza non hanno trovato copertura sono cresciuti del 12,8%, mentre le sofferenze bancarie in capo alle aziende hanno fatto registrare un'impennata spaventosa: +165%. Alla fine del 2012 l'ammontare complessivo delle insolvenze ha superato i 95 miliardi di euro”.

I conti dei piccoli imprenditori sono in rosso, i protesti volano, e il 50% delle pmi non riesce più a pagare nemmeno gli stipendi.

Colpa soltanto delle banche? No, colpa anche di chi non ha saputo fare altro che tagliare selvaggiamente, senza studiare forme di credito agevolato e di sgravi fiscali mirati. Il danno è grosso e porvi rimedio costerà impegno e fatica. Resta ancora da capire chi sarà in grado di addossarsi un tale fardello per ridare vita a quelle pmi che un tempo erano reputate la spina dorsale di questo Paese.