Apre oggi, domenica 19 maggio, presso il nuovo padiglione fieristico milanese di Rho, la quattro giorni di Tuttofood. Ma la kermesse non si presenta certo sotto i migliori auspici, come ammettono gli stessi organizzatori in un comunicato, dove si precisa che “in questo momento, esportare sembra essere l’unica scelta possibile per le imprese. I dati di settore parlano chiaro: il valore dell’export è stato di 24,8 miliardi di euro nel 2012, con un incremento dell’8%, comunque inferiore a quello dei due anni precedenti, che si aggirava intorno al 10%.

Il mercato interno dimostra un polso sempre più flebile. Da una nuovissima indagine condotta da Astra Ricerche per Granarolo emerge un quadro di diminuzione dei consumi per il 59% della popolazione (22,7 milioni di italiani) cui si aggiunge un 28% del campione che ha mantenuto “stabili” i propri comportamenti di acquisto (10,7 milioni). Il tutto nel momento in cui l'Esecutivo ha pensato bene di appesantire ulteriormente il bilancio dei nostri connazionali, confermando, dall'1 luglio, l'aumento di un punto di Iva sull'aliquota più alta che passa al 22%, con un costo annuo per famiglia di altri 153 euro. Rincareranno dunque vino, birra, spumanti e alimenti pregiati.

Nei prossimi dodici mesi il 46% non prevede alcun recupero, mentre il 39% ipotizza un decremento (per un quarto assai forte): il pessimismo risulta massimo tra i 45-64enni, i residenti nelle aree metropolitane, i pensionati e i salariati. Colpisce poi che una parte non piccola dichiari di saltare alcuni pasti (18%), di fare meno spesso da mangiare per puro piacere (13%)e persino di ridurre il numero delle porzioni ai pasti (2%). Soffre, e parecchio, il fuori casa.

Tuttavia dal documento emergono anche evidenze positive. L’alimentare flette meno del non alimentare o dei durevoli, essendo tutto sommato un bene di prima necessità. E soprattutto i nostri connazionali, se appaiono disposti a ridurre le quantità cercano in ogni modo di non cedere sulla qualità di quel che mangiano e bevono: il 61% è riuscito nell’ultimo anno a difendere questo valore e l’11% addirittura a migliorarlo, con il restante 28% che invece ha dovuto accettarne una riduzione (ma nella metà dei casi solo per taluni prodotti).

Cambia anche la mappa dei soggetti nei quali gli italiani ripongono la loro fiducia se si tratta di alimentazione: l’agricoltura e la vicinanza alla natura hanno un revival importante in generale. Così nell’ultimo anno sono risultati in crescita gli agricoltori e gli allevatori (18%), i piccoli produttori artigianali (18%), ma anche la gdo (7%) e le sue private label (7%), mentre hanno subìto un calo il dettaglio tradizionale (-10%), le marche minori dell’industria (-14%), quelle grandi e famose (-17%), l’ambulantato (-20%)un canale che tuttavia, secondo altre fonti, ha saputo brillantemente recuperare sul non food.

Dunque il sentiment della popolazione, anche se evidenzia qualche elemento favorevole, è a dir poco negativo. Idem quello dell’industria: in Italia non esistono soltanto grandi o grandissime aziende che possono permettersi di compensare le perdite sul mercato interno attraverso l’attacco ai promettenti Paesi in via di sviluppo, dove si sta creando uno zoccolo di 1 miliardo di nuovi borghesi-consumatori. Il tessuto connettivo è invece formato dalle Pmi, gravate da ogni genere di problema, a cominciare dalla latitanza del credito bancario.

E così cola a picco la fiducia dell’industria alimentare italiana nel primo trimestre 2013, secondo l’indagine che Ismea ha condotto a marzo su un panel di 1.200 operatori. L'indicatore, elaborato trimestralmente dall’istituto attraverso valutazioni su ordini, attese di produzione e livello delle scorte, si è attestato a -15,3 (in un campo di variazione che oscilla tra -100 e +100), registrando il secondo valore più basso dopo quello rilevato in coincidenza con la fase più acuta della crisi del 2009.

Il deterioramento dei giudizi sul trend degli ordini e delle scorte di magazzino, solo in parte controbilanciato dal miglioramento delle attese di produzione per il successivo trimestre, ha determinato una flessione dell’indice di fiducia di 2 punti su base trimestrale e di oltre 9 punti rispetto allo stesso periodo del 2012. In particolare, sottolinea Ismea, la dinamica negativa degli ordini e l’accumulo delle scorte riflettono la flessione della domanda interna, in un contesto in cui a tirare sono solo le esportazioni (+9,8% l’export agroalimentare nel primo trimestre 2013, sempre secondo l’istituto).

Risulta in crescita rispetto allo scorso anno la quota di aziende che prevede un ridimensionamento dell’attività produttiva e dell’utilizzo di manodopera nel corso del 2013 (circa il 19%), a fronte di un 68% che si dichiara intenzionato a mantenere inalterato il piano di produzione e l’assetto occupazionale.

Ma quali alimenti perdono di più? Iri spiega che nel 2012 a fronte di una generica stabilità in termini di volumi dei settori lattiero caseario (-0,4% in volume, +1,3% in valore) e dei surgelati (-0,7%), la “dieta” si è fatta maggiormente sentire nell’ambito del dolciario (quasi un punto percentuale in meno), nei salumi (-1,1% in termini di volume, +2,4% in termini di valore) e nel comparto della carne (-2,1% in volume, +2,4% a valore). Secondo altre fonti le sole carni rosse sarebbero addirittura in calo del 5%, per via di un prezzo ormai troppo considerevole.

Si possono formulare su questo scenario le solite ricette di business: contenere i prezzi, investire sulla qualità, mantenere le quote sul mercato interno e aggredire i Paesi ad alto tasso di sviluppo, non sperare certo nell’aiuto del sistema bancario o, peggio, della politica e dunque reinvestire gli utili in azienda.

Bei discorsi, che vanno senz’altro bene per le poche multinazionali e per le società medio-grandi, ma che per le Pmi suonano come una triste presa in giro. E la stessa guerra di religione che da anni vede opposti Cibus di Parma e Tuttofood di Milano non fa altro che gettare benzina sul fuoco.

Come se l’Italia, che ha una cultura alimentare che tutto il mondo invidia non fosse capace, volendolo davvero, di esprimere una grande fiera di settore, sul modello dell’Anuga di Colonia o del Sial di Parigi. E intanto, mentre noi siamo indaffarati a beccarci reciprocamente come i capponi di Renzo, ogni giorno nuove imprese nazionali passano in mani estere.