Deceduta per troppe idee, ma confuse: questa potrebbe essere la conclusione della liberalizzazione commerciale voluta ventuno mesi fa dal Governo Monti.

Ma perché e per chi le liberalizzazioni sarebbero un bene? Per il consumatore di sicuro, visto che dopo tutto il consumatore è sempre avido di servizi, coûte que coute. Ma in ogni deregulation c’è, a priori, chi vince e chi perde, e chi perde di solito si vede sottratti benefici consolidati, che pur avendo poco a che vedere con un sano concetto di impresa, non possono essere tolti repentinamente, come si farebbe tirando un tappeto sotto i piedi. Bisogna dare, a chi viene colpito, almeno il tempo di ristrutturare la propria attività tenendo conto che, da un certo momento in poi, un valido aiuto gli verrà a mancare.

Dall’altro lato va detto la liberalizzazione commerciale, in quanto costo, non può che fare gli interessi, impliciti o espliciti che siano, della gdo, che, grazie a organici folti e risorse finanziarie, può anche arrivare a investire sugli orari estesi per puri motivi di immagine, ossia per passare al consumatore il messaggio che il suo supermercato preferito è sempre accanto a lui, feste o non feste.

La situazione, già incandescente, complessa sotto il profilo politico, finanziario e anche umano (lavorare la domenica comporta un guadagno e l’apprezzamento dei superiori, ma implica il fatto di rimanere lontani da casa nei giorni di riposo), è ulteriormente complicata dalla lotta fra gli enti locali e lo Stato, per la rivendicazione dei rispettivi poteri in materia di distribuzione.

A fine luglio l’Antitrust, dopo un attento monitoraggio, ha concluso che “la risposta più adeguata non è il ripristino della situazione precedente o la ricerca di una nuova regolamentazione, ma l’eliminazione dei vincoli che impediscono il pieno realizzarsi della liberalizzazione”. L’Agcm ha inoltre ribadito che “la tutela della concorrenza rientra nelle competenze del legislatore statale” e che tutto quanto funziona da ostacolo deve ritenersi “contrario ai principi posti a tutela della concorrenza stessa”, avvertendo che il permanere di vincoli locali potrebbe comportare “la facoltà, espressamente prevista dal legislatore, di attivare i poteri sostitutivi dello Stato”.

Ma i conflitti sono proseguiti più di prima. In Lombardia, ormai da tempo, la giunta Maroni ha varato una moratoria sull’apertura di nuovi centri commerciali. A metà settembre c’è stata, da parte di Leroy Merlin Italia, una richiesta di sospensiva, respinta dal Tar. Il Tribunale, a latere del procedimento, ha detto praticamente tutto e il contrario di tutto. Prima ha ribadito che le normative regionali non potranno superare i «principi statali di liberalizzazione”, ma poi ha puntualizzato che tali interessi sono “da contemperarsi con i motivi imperativi di interesse generale». Principio sacrosanto, ma che lascia aperta la porta a qualsiasi interpretazione, visto che nessuno può misurare un concetto relativo,  e vagamente stalinista, come l'imperio dell'interesse generale.

Insomma in Padania, tutto resterà com’è fino al 31 dicembre, data in cui terminerà il semestre no opening voluto dalla Giunta, un semestre che, almeno secondo il Pirellone, servirà – bloccando le nuove autorizzazioni e le concessioni di ampliamento – a studiare il settore distributivo, trovando il giusto equilibrio fra gli interessi dei “grandi” e quelli dei “piccoli”.

Altro episodio. Il 17 settembre l’Anci, l’associazione nazionale dei Comuni d’Italia, ha riesumato la possibilità di ricondurre nelle mani dei Sindaci le autorizzazioni in materia di orari del commercio. Ha applaudito Confesercenti che, insieme a Federstrade Roma e alla Conferenza episcopale italiana, ha depositato, il 14 maggio presso la Camera dei Deputati una proposta di legge di iniziativa popolare con 150.000 firmatari. Lo scopo, si legge sul sito www.liberaladomenica.it , “è cambiare la normativa sulle liberalizzazioni e riportare nell’ambito delle competenze delle Regioni le decisioni sulle aperture degli esercizi commerciali. Si tratta di una legge di civiltà che freni l’eccesso di aperture domenicali e festive delle attività commerciali, restituendo dignità ed equilibrio a imprenditori e lavoratori del settore. Essendo una legge di iniziativa popolare, non decadrà con il termine della legislatura”.

Il 18 settembre le luci si sono accese sul Friuli Venezia Giulia, dove la giunta ha ventilato anch’essa la possibile introduzione di una moratoria, ossia una norma per porre un freno alla costruzione di nuovi centri commerciali sul territorio friulano, proposta avallata da Confcommercio, che in una nota ha affermato la necessità di individuare un sistema di regole condivise, necessarie al rilancio delle attività commerciali dei piccoli centri.

A questo punto bisognerebbe tirare una conclusione e suggerire il solito un tavolo comune, id est una commissione mista (politici e parti in causa). Ma di solito purtroppo a questi tavoli comuni i convenuti si addormentano per eccesso di carne al fuoco e, fatta la meritata “pennicchella”, se ne tornano a casa convinti di avere fatto una buona cosa, ma senza sapere nemmeno loro cosa e con quali conseguenze. Che amarezza... Forse davvero i tempi sono maturi per rimettere mano alla legge, con calma, con impegno, con tanta voglia di lavorare negli interessi dei consumatori e degli imprenditori, senza tenere conto del potenziale serbatoio di voti che questi soggetti rappresentano.