Un titolo del genere implica innanzi tutto un chiarimento: a quale distribuzione vogliamo riferirci? Perché così - genericamente - possiamo intendere anche la distribuzione monomarca, che in verità, nell’abbigliamento, nell’arredo e negli accessori di lusso ha sempre contrassegnato un successo dell’imprenditoria italiana. Una distribuzione questa che, anzi, con un insegnamento parallelo potrebbe essere molto utile al resto dei player della distribuzione propriamente tale, come I grandi magazzini, i centri commerciali, la grande distribuzione specializzata, gli alimentaristi misti della grande distribuzione o della distribuzione organizzata  e  i dettaglianti di prossimità.

Tutti questi soggetti, in un mondo come l’attuale, possono porsi il quesito di considerare lo sviluppo della propria attività fuori dai confini domestici, ovvero in altri paesi ed in altri continenti. Normalmente questo accade quando pare saturata la propria capacità di penetrazione nel mercato d’origine. Ma questo non è detto perché, anzi, una visione d’impresa che considera l’opportunità esterna tra le opzioni originali del proprio essere tende a configurarsi come più adatta ad un ruolo internazionale, altrimenti la residualità dell’iniziativa dimostrerebbe un incapacità evolutiva che all’estero cerca solo alibi alla propria insufficienza.

I fatti dell’ultimo decennio tuttavia dimostrano che questo tema è spinoso. Il mondo produttivo del largo consumo ha più volte imputato alla distribuzione di proprietà Italiana che il fatto di non essere stata capace di entrare in mercati  esteri ha condizionato la penetrazione e la conoscenza delle marche italiane. Marche che sono state in qualche modo sedotte dagli operatori esteri i quali, entrati in Italia, palesavano ai fornitori italiani, in contropartita a  forti investimenti presso di loro, anche la possibilità di essere assortibili nella rete internazionale.

In realtà questo era vero e principalmente alcuni gruppi di nazioni occidentali hanno creato una forte simbiosi tra  i paesi di origine, il modello distributivo e l’alleanza con i fornitori globali. Si può far riferimento al sistema dei cash and carry e dei discount, di cultura industriale tutta basata sull’efficienza e standardizzazione di matrice tedesca; agli ipermercati e ai centri commerciali espressione della soluzione a massa critica e di centralismo tipico della cultura francese; ai convenience store,  essenziali e pragmatici nei servizi  anche a 24 ore su 24, fortemente espressione della mentalità anglosassone.

Gli Italiani hanno subito sì l’ingresso poderoso di queste insegne attive su scala internazionale ma, ad onor loro,  hanno reagito all’interno del paese con abilità e determinazione, evitando di essere totalmente omologati e sperimentando un loro stile di fare commercio che è quello relazionale, coniugato al meglio nelle piccole e medie superfici di prossimità. Format, questi ultimi, che hanno trovato interesse nei capitali non solo di alcuni imprenditori ma soprattutto nelle forme a capitale diffuso della cooperazione al consumo e al dettaglio o dell’associazionismo prima e poi nel franchising.

Questa curva di esperienza giustifica quindi un relativo ritardo nella focalizzazione delle opportunità estere. Opportunità che, tuttavia, proprio nelle realtà della distribuzione cooperativa ed associata ha trovato via via esperienze  significative. E’ il caso di Conad che, forse frequentando anche l’alleato Leclerc e la loro centrale d’acquisti europea, non solo ha da anni avviato attività in un paese confinante come l’Albania, (interessando anche da Pam) ma anche il mercato USA, epicentro dell’economie di consumo. Più in piccolo vale anche il caso di Sisa, che su Malta ha sperimentato una associazionismo fuori frontiera. Ancora in grande emblematico è il caso di Coop Italia che, pur condizionato dai patti interstato del sistema cooperativo a cui aderisce, ha con l’acquisto da Farinetti dell’operazione Eataly aperto una nuova prospettiva proattiva  che per altro è stata anche al centro dell’attenzione di Crai. Quest’ultima, infatti, per prima a Malta , poi in Svizzera  e successivamente con un approccio segmentato tra paesi confinanti, paesi dell’Europa continentale a mercato distributivo maturo, paesi del nord Africa ed Europa orientale a mercato distributivo vergine e paesi del Brics a mercato di dimensioni continentali, aveva sviluppato una strategia  di approccio basata sul posizionamento “Genuinamente Italiano” sulle proprie forze di uno stile di commercio relazionale col negozio di prossimità e con un offerta alimentare italiana presidiata dalla linea propria “Piaceri Italiani”.

I casi sinteticamente indicati, che non esauriscono le esperienze, dimostrano come la coerenza strategica dell’attività originale sia il primo punto fondamentale per poter attivare un percorso di internazionalizzazione che, se non è coerente con visione, missione, obiettivo e posizionamento strategico, non potrà mai essere di successo. In questo senso, una recriminazione del sistema Italia può essere fatta per la fase in cui le partecipazioni statali erano presenti in modo significativo nella produzione alimentare e con Generali Supermercati nella distribuzione. Allora molti soloni argomentavano che non solo lo Stato non doveva fare il privato ma ancor meno doveva farlo in settori di ampia accessibilità privata, ritenendo che l’industria strategica per l’Italia fosse la siderurgia,  la meccanica  e  meno che mai l’agroalimentare, la distribuzione ed il turismo.

Per quello che fu possibile proprio grazie alla Sme e alla proprietà del marchio Bertolli si assistette al lancio in grande stile sul mercato nord americano dell’olio d’oliva e dell’olio extravergine con un ritorno per tutte le imprese italiane in grado di seguire o comunque, se già presenti, di approfittare di questo pivot. Pensate se all’epoca GS avesse avuto mandato di affermare una presenza italiana nel mondo della distribuzione mass market. Ne aveva i presupposti, la vocazione di interesse generale, la qualità del management, la consolidata posizione interna. Poteva anche progettare una joint venture con altri gruppi di privati importanti all’epoca e con una situazione competitiva franco-anglo-tedesca ancora da definirsi. Così non è stato. Abbiamo giocato più in difesa che all’attacco. Ma la situazione dei mercati nel mondo e l’emergere delle debolezze di uno scenario omologato in tutto il mondo, in quanto insostenibile, rilanciano a pieno titolo le opportunità per noi italiani.

Occorre sempre comunque e di più una forte capacità di posizionamento coerente in Italia con ciò che si intende perseguire fuori Italia. Occorre una grande consapevolezza non solo delle capacità dei concorrenti esteri presenti nel mondo (i soliti),  ma anche di quelli localmente attivi nei paesi di riferimento predestinati ad essere  i nuovi player. Occorre strategicamente fare forza sulle proprie forze di insegna e di paese. E queste ultime vanno dal Colosseo con la storia dell’impero romano e poi dei papi, fino all’opera lirica, al aalcio, alla Ferrari, al cibo (soprattutto olio, vino, pasticceria, cioccolato, prosciutto, formaggio, prodotti da forno, salse e sughi) alla qualità della vita (lenta, affettiva, intergenerazionale) alla moda (elegante, confortevole, tattile) al turismo (paesaggi, clima, monumenti  socialità) al “bello”!

Ma occorre anche offrire innovazione che nel mondo distributivo oggi significa format esperienziali in cui la perfezione della proposta non è tanto o solo quella tecnologica, ma quella dell’atmosfera, del servizio dell’assortimento nella distintività del momento che chi frequenta il posto può vivere, ricordare, segnalare nei social network e fare sua. Tutto ciò è entusiasmante ma non è facile. Richiede che lavorino insieme molti talenti. Occorre che chi si propone tutto ciò abbia competenze di idee e di operazione completamente dominate, ma che domini anche le lingue necessarie e, più difficile, le culture dei contesti in cui andrà ad operare. Occorre che la relazione coi servizi pubblici indispensabili e presenti, Ministeri, Ambasciate, Simest, Sace, Ice ecc. siano compresi  in profondità nelle procedure e nelle persone di riferimento.

Analogamente, occorre riconoscere la consulenza realmente competente per lo scopo e del paese di riferimento, dedicando tempo a farsi una propria opinione sia in rapporto ai sistemi locali che ai referenti delle nostre camere e delle nostre banche. Occorre una fortissima convergenza dei decisori, proprietà e management sugli obiettivi di lungo termine  e sulla tenuta  finanziaria  necessaria per l’investimento progettato,  che non può essere considerato come un esperimento o che, se è tale, deve essere tale  fin dall’inizio e cioè come un preliminare di investimento.

Occorre anche una paziente e diligente preparazione delle filiere di fornitura in rapporto all’esportabilità di determinati prodotti, sia per le normative interstato che per l’applicazione pura e semplice delle correnti regole, quasi mai note a chi produce e spesso ignote anche a chi deve provvedere alle necessarie autorizzazioni in uscita. Occorre un’efficiente organizzazione logistica che sappia  armonizzare i vantaggi dei groupage di spedizione con la celerità di sdoganamento dei prodotti all’arrivo. Occorre una capacità di comunicazione nei mercati di destinazione sia in rapporto all’insegna che in rapporto all’offerta con un principio base dalla comunicazione in etichetta e sul punto vendita

Occorre, infine, una seria solida attività di integrazione del management locale nella realtà dei paesi in ingresso per rispettare sì i bisogni informativi della centrale che esporta e controlla ma, ben più importante, per rispettare il bisogno formativo del personale locale, il bisogno conoscitivo delle istanze del consumatore locale  in termini di comprensione, di sperimentazione di convenienza di prezzo e di modalità di consumo.
Tutto ciò, preferibilmente, non impegnandosi da soli, fuori casa, ma alleandosi nel capitale o nelle relazioni o nella gestione con referenti locali adeguatamente conosciuti, apprezzati e  responsabilizzati nella sostanza di fiducia, oltre che nelle forme contrattuali  comunque sempre privilegianti la normativa locale.

Le prospettive ci sono e anche gli errori e le esperienze di insuccesso servono. Senz’altro l’Italia per sé, o anche come capofila della dieta mediterranea, è in grado di presentarsi con credenziali per format innovativi che uniscono il cibo, alla gastronomia, alla ristorazione al tempo libero e al turismo. Ma non solo. Con le stesse prerogative già citate il cibo si lega alla salute alla naturalità, alla sostenibilità e ancora al turismo.
In alternativa esistono approcci specialistici dedicabili in alcuni paesi più che in altri, a seconda delle specificità locali, ma che sono rispetto a noi opportunità ancora da scoprire. Mi riferisco a enoteche, oleoteche, macellerie, panetterie-pasticcerie, gelaterie, paninoteche. Esistono, infine, prospettive ancora più innovative e tali anche per noi in Italia che partono dal bello, dalla qualità della vita, e che possono offrire prodotti e servizi sostenibili secondo il nuovo paradigma che supera le convenienze commerciali ego-edonistiche  e che propone  Il benessere al valore giusto.