Un quadro a tinte forti quello che ha tracciato Symphony-Iri per conto di Distribuzione Moderna, che conferma una volta di più, riassumendole, le difficili condizioni in cui versa il Paese. Gli elementi macroeconomici negativi sono noti: calo della produzione di ricchezza, polarizzazione della ricchezza stessa in poche fasce sociali e solo in determinate zone geografiche, disoccupazione giovanile al massimo storico (l’indice ha raggiunto il 36% secondo gli ultimi rilievi Istat, mentre il dato per gli adulti è ora all’11%), incerte prospettive di bilancio, calo del reddito disponibile per consumi e risparmio, con un bilancio familiare che è il fulcro della crisi. 

Il tutto va pesantemente a scaricarsi sui consumi: l’indice di fiducia degli italiani cade, il budget per le spese si restringe ancora, con un trend che scivola costantemente verso il basso, mentre l’esperienza di acquisto è governata soltanto da considerazioni di prezzo. Lo confermano i dati. Mentre nel biennio 2011-2012 i prezzi dei beni di consumo hanno avuto ancora un andamento intorno al +2% le vendite in valore hanno perso il ritmo, flettendo dal 2,9 all’ 1,2%. In sostanza, nonostante tutto quello che la gdo e l’industria sono venute a raccontarci “la crescita della spesa va in larga parte a finanziare una parte dell’incremento dei prezzi”. Certo il commercio e la produzione soffrono, i loro margini si assottigliano, i punti di vendita chiudono e le fabbriche pure, ma tale sofferenza non può trovare un conforto in un consumatore sempre più “ammalato” di povertà.

In volume si osserva un ripiegamento netto, dal +0,9 dello scorso anno a un -0,8% del 2012. Dunque, per dirla con Symphony-Iri “gli italiani fanno la spending review degli acquisti e il 2012 sarà ricordato come la retrocessione dei consumi delle famiglie”. In sostanza le limature, le rinunce su alcune voci merceologiche, come i beni durevoli e l’abbigliamento, non bastano più e il taglio è netto, deciso e investe quasi tutte le categorie di prodotto a parte il food. Nei primi 9 mesi quasi 100 milioni di euro sono stati spostati per salvaguardare la spesa alimentare, che in volume, dunque in termini reali, ha fatto segnare ancora un +1%, però con un allarmante +3,5% dal lato del valore il che vuole dire – basta fare una semplice sottrazione – che la componente prezzo ha inciso per due punti e mezzo tentando un improbabile recupero dell’inflazione. E questo nonostante la ricerca della convenienza sia diventata una vera professione.

Ricerca vuole dire cambiamento della tipologia dei punti di vendita – sempre meno ipermercati e superette e sempre più discount – e caccia alle promozioni. I retailer cercano di cavalcare l’onda, aumentando la pressione promo (dal 24,7 al 25,4%), che ormai assicura i quattro quinti della crescita del giro di affari del largo consumo confezionato. Ma le famiglie camminano a piccoli passi e cancellano la tendenza a fare scorta anche in presenza di offerte particolarmente vantaggiose e questo per due buoni motivi: un sconto interessante lascia prima o poi spazio a uno ancora più interessante e nessuno è disposto a totalizzare uno scontrino da record pur di aggiudicarsi quantitativi rilevanti di merce.

La promozione inoltre è, e questo i distributori lo sanno alla perfezione, un’arma a doppio taglio, in quanto riduce la brand loyalty – e fino a qui il problema è dell’industria – , ma soprattutto comporta un aumento del nomadismo fra i punti di vendita, per cui, in un mese, si frequentano in media 3,4 insegne diverse. Forse allora è meglio ispirarsi ad altri modelli e adottare, come alcune catene stanno già facendo, una logica di every day low price. E questo perché la spirale inflazionistica continuerà a peggiorare, rendendo impraticabile e insostenibile una strategia di supersconti a macchia di leopardo. Questo al netto dell’ultimo trimestre in cui è prevedibile una contrazione dei prezzi per sostenere la campagna natalizia.