Il bilancio tracciato mercoledì 13 da Filippo Ferrua Magliani, presidente di Federalimentare, fa una certa paura, anche se ormai i segni della crisi sono talmente tanti che non desta stupore, in un Paese narcotizzato, ma non tanto addormentato da non essere alla ricerca di una leadership, come prova l’enorme interesse con cui sono state seguite le elezioni dei nuovi presidenti della Camera e del Senato, per non parlare della nomina di Papa Francesco. Persino gli atei più incalliti hanno guardato al Soglio di San Pietro con un certo entusiasmo, con la speranza che caratterizza un grande popolo che ha bisogno di grandi uomini a cui fare riferimento. E che forse, speriamo, li sta già trovando, anche se è presto per i giudizi. I lettori che pensano che sia tutta retorica e che l’elezione di un Papa non abbia nulla a che vedere con l’economia non devono fare altro che visionare i dati di ascolto televisivi di mercoledì e magari ripassare il concetto socioeconomico di consumer confidence e relative determinanti. Il che non significa esattamente che sabato scorso si siano comprate più bistecche, più pasta, più bottiglie… La cosa non funziona proprio così, almeno nel breve termine.



Il bollettino di guerra stilato da Ferrua è passato, almeno sembra, un po’ sotto silenzio, poco “coperto” da giornali e giornalisti che, lo stesso giorno avevano gli occhi e la mente puntati sul voto del Conclave. La speranza, in modo umanissimo e condivisibile, ha fatto aggio sulla cronaca di un presente e di un passato di sconfitte, sconfitte che la politica dei precedenti governi hanno reso praticamente inevitabili portando il sistema economico alla paralisi, con una linea suicida, ma propinata come necessaria, che per rientrare dal debito ha tagliato e tassato tutto quello che poteva, fermando prima i consumatori e poi le imprese, e, in ultima analisi anche lo Stato medesimo, visto che non si può spremere chi non ha più nulla da dare.



Queste le cifre della débâcle, una débâcle tanto più grave in quanto sta spostando gli investimenti fruttiferi e produttivi verso l’Africa e l’Oriente, un processo che sarebbe comunque avvenuto, dato che parliamo di zone con tassi evolutivi esponenziali, ma non certo con questa velocità. Nel 2012 l’industria alimentare, secondo settore produttivo dopo il manifatturiero, ha pagato un prezzo sempre più alto al protrarsi della crisi, che alla recessione dei consumi nazionali aggiunge sfide sempre più ardue sui mercati esteri. E, alle soglie del 2013, arrivano tre concreti segnali di preoccupazione per la competitività del settore, con valori di segno negativo sul fronte degli investimenti (dal 58% al 45% le imprese che effettueranno investimenti nel prossimo biennio), dell’occupazione (persi 5.000 posti di lavoro) e dell'accesso al credito (1/3 delle imprese che hanno chiesto un fido ha avuto un esito negativo, con risposte inferiori alle richieste o con richieste non accolte).



“Nella crisi non esistono isole felici – racconta Filippo Ferrua -. Finora l'industria alimentare ha saputo confermare la sua vocazione alla qualità, ma l’erosione dell'occupazione, la riduzione della propensione agli investimenti e la difficoltà nell'accesso al credito sono il riflesso di una spirale involutiva del Paese che ci fa guardare al futuro con preoccupazione. Per sostenere l’industria buona, portiamo all’attenzione del nuovo Governo un documento programmatico su alcune aree di intervento di rilancio del settore (fisco, internazionalizzazione, politiche europee, educazione alimentare e ricerca e innovazione). Bisogna in particolare ridurre la pressione fiscale fermando ogni tassazione impropria, come food tax o accise, contrastare l’aumento dell’aliquota del 21% previsto a luglio 2013 e ridurre l’incidenza fiscale dei costi di trasporto e dell’energia; sostenere l'internazionalizzazione, adottare una politica fieristica chiara e lungimirante e lottare contro la contraffazione; partecipare attivamente al dibattito sulla revisione della PAC, in particolare riguardo ai temi dell’approvvigionamento e della security alimentare”.



Secondo le stime del Centro Studi Federalimentare, nell'anno appena concluso il fatturato dell'industria alimentare ha raggiunto i 130 miliardi di euro, con un aumento del +2,3% sul 2011 legato esclusivamente all’effetto prezzi. Infatti la produzione in termini quantitativi è calata dell’1,4% sull’anno precedente a parità di giornate lavorative. Va sottolineato comunque che, rispetto al livello di “picco” pre-crisi del 2007, la produzione 2012 dell’industria alimentare cede “solo” 2,5 punti, a fronte dei 22,9 punti dell’industria italiana nel suo complesso.



D'altra parte, rispetto alla solidità dimostrata dal settore a livello produttivo, la crisi dei consumi interni ha colpito il settore in modo più pesante rispetto alla media del Paese. I consumi alimentari degli ultimi 12 mesi hanno registrato una flessione del 3%. Un dato a prima vista non così eclatante rispetto alle perdite subite da altri comparti industriali (uno tra tutti, l'automobilistico). Ma che corrisponde – visti gli enormi volumi che muove questa industria - a una perdita in valore di 6,8 miliardi di euro. Pari a 10 volte il mercato di computer, smarthphone e tablet, 10 volte gli incassi dell'industria cinematografica, 3 volte il business del calcio e il doppio di quello del libro. Ma se consideriamo l’arco gli ultimi 5 anni (2007-2012), il calo della spesa alimentare tocca i 10 punti percentuali (-20 miliardi di euro), il doppio rispetto alla contrazione dei consumi nazionali complessivi, che, in valuta costante, hanno accumulato una perdita di 5 punti in termini concatenati (come se non fossimo mai andati al ristorante e in pizzeria nell’ultimo anno e mezzo).



Con i consumi interni in recessione, l'export rappresenta un’importante valvola di sfogo e di redditività per il settore: nel 2012 tocca i 24,8 miliardi di euro, +8% sul 2011 e un'incidenza sul fatturato totale dell'industria alimentare del 19%. E’ la percentuale più alta di sempre, ma inferiore a quella di Germania, Francia e Spagna, che oscillano tra il 22% e il 29%, e circa la metà di quella del manifatturiero italiano nel suo insieme (37%).
Contribuisce a questo gap la grande frammentazione di un settore composto per lo più da piccole e piccolissime aziende, che hanno maggiori difficoltà ad andare sui mercati più lontani e promettenti, soprattutto perché nessuno vuole finanziarle e il ricorso ai mezzi propri è praticamente rarissimo visto che non ci sono quasi utili da mettere a riserva.



Le crescite più significative, come accennato prima, si sono registrate nei mercati emergenti. Medio Oriente, con Emirati Arabi Uniti (+41,5%), Arabia Saudita (+29,1%) e Turchia (+38,5%). Estremo oriente, con Cina (+20,6%), Giappone (+21,2%) e, soprattutto, Tailandia (+38,5%), Corea del Sud (+25,9%) e Hong Kong (+19,3%). Significativi anche gli spunti di Messico (+35,2%) Russia (+19%) e Ucraina (+18,0%).



Eppure in tutto questo non sono mancati gli innumerevoli casi di imprenditori, grandi e meno grandi, che hanno saputo fare quello che gli economisti e i consulenti più illuminati, i quali comunque non rischiano soldi propri e fanno presto a parlare, hanno suggerito, almeno a quei pochi, forse pochissimi, che avevano bisogni di un suggerimento tanto ovvio: investire per contrastare la crisi.



I casi non si possono elencare tutti, perché sono molti ma ci sono. A partire da un grande del dolciario, Alberto Bauli. Accortosi da anni, come altri colleghi, che il prodotto da ricorrenza è peggio di una scommessa, in quanto stagionale ed esposto durante le trattative commerciali ad ogni tipo di forma di compressione dei margini, si è buttato sui continuativi. Il mese scorso ha rilevato Bistefani, marchio storico la cui fine era stata da tempo decisa dalle banche. L’antica azienda di Casale Monferrato, titolare di marchi prestigiosi come Krumiri, Girella, Buondì, YoYo e Ciocorì, ha girato al veronese tanti debiti, ma anche tanti buoni affari. E così oggi Bauli si ritrova in mano un gruppo con un giro d’affari che passa in un solo colpo da 420 a 500 milioni di euro. I 140 addetti dello stabilimento di Villanova hanno conservato il proprio posto, passando sotto la bandiera del nuovo proprietario, che detiene, oltre ai famosi prodotti da forno da ricorrenza, i biscotti Doria, Casalini e il marchio Motta, il tutto per un organico di 1.100 persone.



Quello che ha portato alla vendita di Bistefani sono stati i debiti prevalentemente dovuti a Luigi Viale Spa, che lavora nella gdo con il marchio Dimeglio: 84 punti di vendita, perdite per 43 milioni su vendite di 80. Una situazione allarmante che ha spinto i due principali creditori, Unicredit e Intesa San Paolo a revocare linee di credito per 27 milioni, anche in seguito alla richiesta di concordato.



Riso Scotti: una storia poco seguita, praticamente trascurata, visto che gli occhi di tutti gli osservatori dell’alimentare erano puntati su lasagne e polpette al cavallo e su altre contaminazioni alimentari. Per carità, un caso gravissimo, se non altro di una frode in commercio di dimensioni continentali, ma non per questo immagine di un intero sistema produttivo. Qui si è trattato di un rafforzamento che ha aperto le porte a un potente socio estero, ossia Ebro Foods, che tramite una joint venture, che sarà perfezionata entro il 31 maggio, rileverà per 18 milioni il 25% dell’azienda. La multinazionale spagnola (riso, pasta, sughi) possiede 60 marchi, lavora in 25 nazioni europee, americane, asiatiche e africane e permetterà a Dario Scotti di allargare su un ampio scacchiere internazionale i propri orizzonti.



«Una missione simile quella di Ebro e Riso Scotti: ricercare, creare, produrre e mettere sul mercato prodotti alimentari ad alto valore aggiunto, che soddisfino le esigenze nutrizionali della società, migliorando salute e benessere – ha dichiarato Dario Scotti, presidente e amministratore delegato -. Per noi è un momento storico: dopo 153 anni l’azienda, 100% di proprietà della famiglia, apre ad azionisti terzi: la scelta è stata attenta e meditata, nel desiderio di esprimere una rinnovata e maggiore forza industriale come primo gruppo risiero europeo, in termini di sviluppo e distribuzione di prodotti di nuova generazione. Sappiamo di aver scelto i migliori, e siamo lusingati di essere stati scelti dai numeri uno».



Naturalmente non sono mancati i soliti piagnistei sul made in Italy che se ne va, senza considerare che si tratta di un 25% e non di un 51%, che siamo in un mondo globalizzato, e che, soprattutto, è molto meglio l’ingresso di un partner industriale di quello di un private equity oppure di dovere prima o poi invocare l’intervento di un “cavaliere bianco” per mettere una pezza al peccato (mortale) di localismo.



Granarolo. E’ passato già del tempo da quando il presidente Gianpiero Calzolari ha annunciato il proprio piano di raddoppio del fatturato entro il 2016, da 1 a 2 miliardi di euro. I dati di bilancio presentati il 28 febbraio confermano che non si tratta di una boutade: "I risultati conseguiti testimoniamo la capacità del Gruppo Granarolo di adattarsi al nuovo contesto di riferimento, nell’anno in cui la crisi dei consumi ha toccato i livelli più alti dal dopoguerra: registriamo un fatturato in aumento di quasi il 9%, grazie anche al nuovo perimetro aziendale a seguito delle acquisizioni perfezionate lo scorso anno e un utile che cresce del 5,5% sostenuto dall’ampliamento verso categorie di prodotto alternative e a valore aggiunto che hanno contribuito a sostenere la redditività aziendale - ha commentato Calzolari -. Come previsto dal piano industriale 2012-2016, confermiamo il percorso di crescita e di internazionalizzazione che nel nostro settore rappresenta un fattore strategico per il mantenimento della posizione competitiva”. Le strategie del gruppo puntano sulla diversificazione (come avvenuto con il lancio di una gamma di 15 prodotti per l’infanzia), sul consolidamento in mercati con una più elevata self life e dunque caratterizzati da beni più facilmente esportabili (formaggi duri), su tutto il fascino del vero made in Italy, sia presso il consumatore nazionale, sia presso quello estero.



Il 12 marzo, a riprova di tutto questo, è stato perfezionato il passaggio in mano a Granarolo del 70% del gruppo francese Cipf-Codipal posseduto da Compagnie du Forum. Entro aprile 2014 verrà finalizzata anche l'acquisizione per la quota di capitale residua. Con le attività di Cipf-Codipal, che possono generare un fatturato di oltre 100 milioni di euro all’anno, il fatturato del segmento formaggi di Granarolo potrà "superare i 400 milioni di euro, con un'incidenza del 40% sul totale dei ricavi" del gruppo emiliano. La cosa davvero curiosa è che Granarolo, con questo colpo, entra insieme nei formaggi tradizionali francesi e nei formaggi italiani venduti sul mercato dell’Esagono, tramite l’acquisito di uno dei pochi attori del mercato locale a coprire l’intera gamma, grazie alla politica di sviluppo dei propri brand, che ha consentito l’affermazione del marchio Casa Azzurra, per quanto riguarda il made in Italy. In particolare Cipf è leader nei segmenti del parmigiano reggiano, del grana padano, della mozzarella di bufala e ricopre posizioni di rilevanza nei segmenti della mozzarella vaccina, del mascarpone e della ricotta. Solo nell’ultimo anno Casa Azzurra ha visto una crescita delle proprie quote di mercato di oltre 4 punti. Anche in virtù di una presenza significativa nel segmento delle private label, oggi Cifp Codipal vanta una quota di mercato, nel proprio peculiare settore, di oltre il 20%.



Concludiamo la breve e quanto mai parziale carrellata con il nome di Pucci di Lugo di Romagna che cresce nelle conserve vegetali e si piazza fra le 5 maggiori imprese italiane del settore. Questo grazie all’acquisizione, a fine febbraio, di Berni – Condiriso, Condipasta, Carciofotto –, già transitati tempo fa da Nestlé a Copador. Ma non è tutto. Passa di mano anche il paniere delle senapi Louit Frères. Negli anni Pucci e Berni hanno acquisito una vasta esperienza e un know-how che oggi si incontrano per offrire ai professionisti della gdo un prodotto e un servizio competitivi in termini di innovazione e di qualità. E proprio sul segmento del mass market, specie nel Sud Italia, insiste il ceo, Stefano Pucci, che avrebbe sborsato 5 milioni di euro. Ma l’azienda ne fattura già una quarantina, in deciso aumento, visto che lo scorso anno le vendite hanno fatto segnare un +8%. Del resto Berni e Louit Frères vogliono dire anche estero, grazie a reti di vendita già orientate oltre confine, dove Pucci vende già oggi il 50% circa dei propri prodotti. Quanto all’Italia l’obiettivo principale è consolidare la quota di mercato e distinguersi in un business molto parcellizzato, dove nemmeno il leader, Saclà, riesce a superare il 20% di incidenza e dove Ponti, Polli e Coelsanus mettono insieme un altro 20%, anche a causa della robusta concorrenza delle private label.



Per la serie gli italiani che ce la fanno, perché ce la vogliono fare, in barba ai governi tecnici, ai governi improvvisati e al credit crunch.