E’ tutta la settimana che si parla di Gancia: hanno cominciato i quotidiani russi, poi la notizia è rimbalzata anche da noi, finché l’azienda di Canelli è venuta allo scoperto, giovedì 15, con una conferenza stampa in cui è stato confermato che il magnate russo Roustam Tariko, un vero Paperone, ha acquisito il 70% dello storico marchio delle bollicine, nominando un nuovo cda e autonominandosi presidente. Il valore del deal non è stato reso noto, ma la stampa ha parlato di una cifra fra i 100 e i 150 milioni di euro.

Poi è cominciato il solito piagnisteo, da parte di Coldiretti ma anche di Federalimentare, sul made in Italy che se ne va, un inconsolabile lamento che tutti avevamo già sperimentato durante il caso Parmalat-Lactalis, dove ci si era messa di mezzo persino la politica, una politica che comunque aveva finito per arrendersi (per dirla tutta “per calare le braghe” come fa sempre) davanti alla ferrea logica del libero mercato e alla determinazione dei francesi.

Ma perché il made in Italy se ne va? Questo è il punto vero della questione, una questione seria, che va al di là di protezionismi, campanilismi e lacrimucce dell’ultima ora. Intanto i conti di Gancia, la cui gestione operativa non era più in mano alla famiglia dal 2008, non erano affatto in salute, nonostante gli sforzi dell’amministratore delegato Paolo Fontana (confermato oggi nella carica dalla proprietà russa) e del presidente Carlo Pavesio. Perdite per 10,5 milioni negli ultimi due esercizi, debiti netti per 35 milioni, ossia per il 50% di un fatturato di 75, anche se il mol era ritornato in positivo, grazie alla cura da cavallo imposta dal top management.  Già i numeri basterebbero a dare una prima spiegazione.

Ma DM non si è accontentata di questo, e ha deciso di fare qualcosa che forse altri non hanno fatto, ossia di interpellare un esperto di M&A: chi parla è Davide Milano, director di Arietti & Partners, un gruppo forte di 500 consulenti nel mondo, specializzati, appunto, in fusioni, acquisizioni e cessioni aziendali internazionali.

Milano comincia facendo un’analisi di scenario “Solo per fare un esempio concreto, e prendendo tra l’altro come riferimento una realtà – la Francia - non così performante come altri Paesi emergenti, la situazione puramente numerica è questa:  28 operazioni di M&A totali (nel 2011 fino a oggi) cross border, di cui 22 con acquirente francese e solo 6 con acquirente italiano. Non mancano anche i compratori di matrice nazionale, ma non si può negare, le statistiche confermano, che ci siano sempre meno aziende di casa nostra che possono permettersi di fare shopping all’estero”.

Ma per quale motivo? “Le ragioni del fatto che spesso siamo “target” sono varie: l’eccessiva frammentazione delle società italiane e gli ostacoli di natura psicologica degli imprenditori nostrani, con aziende familiari, campanilismo, poca managerializzazione, spesso mancanza di risorse umane per seguire operazioni straordinarie, ritrosia nell’approcciare concorrenti o colleghi sul mercato per parlare di piani strategici e alleanze. Tutte cose che hanno impedito un processo di consolidamento degli operatori sul mercato, processo che al contrario è avvenuto oltre confine. Non è un segreto che il panorama imprenditoriale italiano è dominato dalle pmi.  L’essere piccoli significa spesso non potersi allontanare dal mercato domestico, che però in questo momento non può permettere crescite e sviluppi degni di nota”.

Oltre confine nel corso degli ultimi anni si è già verificato un significativo processo di consolidamento in vari settori… e ora i gruppi che bussano sono dei colossi e stanno meglio di noi in quanto ai fondamentali dei loro bilanci. Avere raggiunto dimensioni più importanti spesso significa minore incidenza dei costi fissi sul totale, maggiore forza contrattuale, in quanto ad approvvigionamento di materie prime, maggiore penetrazione sul mercato mondiale, dunque maggiori performance e utili da reinvestire.

Se poi si guarda proprio alle geografie emergenti – India, Cina, Russia, Brasile, i cui mercati interni crescono a doppia cifra anno su anno - si capisce bene come vengano messe fuori gioco le aziende italiane, che non possono difendere la propria posizione sul mercato: “La crisi economica occidentale – continua Milano - ha fatto si che le performance e i flussi di cassa peggiorassero e la presenza di stock di debito bancario ha acuito il malessere. Al tempo stesso il sistema creditizio e lo Stato, hanno palesato di non poter sopportare ulteriori inefficienze e farsi carico di nuovi finanziamenti o nuovi fidi”.

Per sopravvivere e stare sul mercato è sempre più necessario cercare un partner.  Sia ben chiaro: non è vero che si possa dire che è un male per le aziende italiane. Infatti se non si fosse arrivati a operazioni drastiche, come le varie vendite agli stranieri, molte aziende avrebbero patito danni ben maggiori per il sistema e i lavoratori (fallimento?),  e poi molto spesso il compratore mantiene le strutture in Italia e le forze lavoro, perché è interessato a conservare l’immagine “italiana” della società acquisita e gli sbocchi sul mercato locale (vi ricordate delle moto Benelli, passate in mano ai cinesi?). E questo vale anche per l’azienda di Canelli, come ha sottolineato Carlo Pavesio: “ Roustam Tariko e il gruppo Russian Standard hanno correttamente riconosciuto in Gancia uno dei pochi brand italiani nel mondo del beverage con caratteristiche globali; questo è stato determinante nel processo decisionale che ha portato alla positiva conclusione dell’accordo. La presenza della famiglia nel Cda e nell’azionariato garantisce la continuità e soprattutto una presenza forte sul territorio e testimonia la capacità della famiglia Vallarino Gancia nel saper interpretare i cambiamenti in un mondo in cui la globalizzazione non ha più confini”.

“Difficile al giorno d’oggi fare i “nazionalisti” –  conviene Milano - quando il mercato è globale (e cambia molto velocemente) e per potervi operare bisogna essere operatori globali e con una massa critica significativa , a prescindere dalla bandiera della proprietà. Altrimenti sarebbe davvero un pensare anacronistico e pericoloso. Posso dire con certezza - visto che siamo M&A advisor che lavorano a braccetto con altri 500 colleghi in giro per il mondo - che all’estero, soprattutto nel mercato anglosassone e tedesco, riuscire a vendere la propria azienda è visto come un “successo personale” e  viene acclamato socialmente”.