C’era molta attesa alla fiera Marca di Bologna il 19 gennaio in occasione della presentazione del rapporto annuale sull'evoluzione della marca del distributore, lo studio realizzato da Adem Lab - Università di Parma, giunto ormai alla ottava edizione, che traccia un quadro aggiornato dell’evoluzione delle private label in Italia. Guido Cristini, Ordinario di Marketing presso l’ateneo parmense e coordinatore scientifico dell’Osservatorio sulla marca privata, e Gianmaria Marzoli – vice president di SimphonyIri, hanno snocciolato i numeri della ricerca davanti a una platea gremita e attenta. Numeri che confermano un trend molto positivo per le marche commerciali.

Nel nostro Paese la quota dei prodotti a marchio d’insegna ha raggiunto infatti il 17,2% (pari a 9 miliardi di euro nel largo consumo confezionato), crescendo nell’ultimo anno di oltre sette punti percentuali a valore e di quasi il 4% a volume. Un risultato tanto più incoraggiante se confrontato con la magra performance messa a segno dalle marche industriali: rispettivamente +1,5 e +0,4%. Certo, non siamo ai livelli della Svizzera o del Regno Unito, né tantomeno di quelli di Germania o Spagna, dove la marca commerciale campeggia su circa la metà dei prodotti presenti a scaffale. Ma la crescita è continua e ci sta portando rapidamente ad avvicinarci ai valori dei paesi europei commercialmente più evoluti.

In questo processo di adeguamento agli standard europei la crisi dei consumi, indubbiamente, ci sta mettendo del suo. Ma non si tratta solo di questo. Semmai non ha fatto altro che accentuare un trend già in corso. Anche i retailer italiani, infatti, si sono resi conto da tempo che il consolidamento del valore dell’insegna nel medio-lungo termine, così come la centralità della marca commerciale nell’offerta di categoria o la ricerca di convenienza relativa da proporre al consumatore, dànno i loro frutti. Sia in termini di distintività dell’offerta che soprattutto di maggiore marginalità. Da qui l’avvio di strategie di consolidamento della marca commerciale fondate sulla segmentazione dell’offerta intraprese più o meno efficacemente da tutte le insegne della Gdo nazionale. Non stupisce pertanto che la crescita delle private label prosegua il suo cammino e anzi acceleri. Come non stupisce che lo faccia in modo omogeneo, coinvolgendo tanto i vari canali distributivi quanto i reparti merceologici, i segmenti di prodotto e le diverse aree geografiche del paese.

Tra le tipologie di marca commerciale, ovviamente, a prevalere è sempre quella d’insegna. Nel canale iper + super incide mediamente per l’82,7% a valore nel largo consumo confezionato. Era però l’83,6% l’anno scorso. Segno che l’attenzione dei retailer si è spostata almeno in parte altrove. In controtendenza, guarda caso, appaiono proprio i prodotti a marca premium. Grazie a un balzo superiore al 20% passano infatti dal 4,3 al 5% di quota. Sostanzialmente stabili, infine, risultano le linee bio (4,1%) i prodotti di primo prezzo (5,6%) e le altre marche di fantasia (2,7%). Che i retailer puntino a sviluppare le linee premium è del resto comprensibile. Preso come base 100 l’indice di prezzo medio dei prodotti grocery, quelli a marchio d’insegna generici si collocano all’83, mentre i premium svettano, con i biologici, intorno a 123 punti. Valori da non sottovalutare in tempi di vacche magre e di profittabilità sempre più ridotta al lumicino.