Come cambiano i centri commerciali italiani e soprattutto quali sono le sfide del futuro? La domanda è stata al centro dell’ultimo Christmas Meeting del Consiglio Nazionale dei Centri Commerciali, riunito a Milano l’11 dicembre per premiare le migliori realizzazioni del nostro Paese.

Il sistema degli shopping center nazionali va verso dimensioni medie di gran lunga maggiori di quelle iniziali – fine anni Settanta, anni Ottanta -, quando il massimo non superava i 20.000 mq. Del resto ancora oggi la nostra dotazione, secondo la Commissione consultiva ricerca del Cncc, è caratterizzata da un certo “nanismo”. Su un totale di 957 strutture, rilevate al 31 dicembre 2012, ben il 70%, per un totale di 669, si inseriva nella tipologia dimensionale minore, 28 erano factory outlet, mentre solo 38 si posizionavano nella classe “large” o “extra large”.

Corrado Vismara, vicepresidente Cncc e amministratore delegato di Larry Smith Italia, spiega che l’aumento delle superfici è dovuto anche a fenomeni oggettivi, come il prevalere di logiche di investimento di carattere immobiliare e soprattutto finanziario, con l’ingresso di fortissimi operatori esteri. Valga per tutti il rastrellamento messo in atto nel mondo dal Fondo Sovrano del Qatar.

Ma grande non è sinonimo di seducente. “Il futuro – spiega Vismara – è legato al prevalere di componenti legate all’intrattenimento e al tempo libero. Il ‘leisure’ diventa il vero magnete, soppiantando il mall, come questo ha soppiantato l’ipermercato”. Il “mostro” Europacity, che aprirà i battenti nel 2020 nel bacino di Parigi, su un totale di circa 430.000 mq, ne ha 200.000 destinati a intrattenimento, parchi, attrezzature sportive…

Mentre il gioco delle immobiliari commerciali e dei gestori si orienta verso Cina, America Latina e Africa, le dimensioni doppie o triple insieme alla presente e lunghissima recessione, hanno ridotto il ritmo delle aperture italiane a una decina all’anno, contro le 40 degli esordi.  Una lentezza di facciata, visto che al di là delle inaugurazioni spicca la componente più dinamica del settore, quella delle ristrutturazioni parziali, o, più volentieri, integrali.

Piattaforme moderne e allargate sono destinate ad accogliere però consumatori più morigerati, che cercano in questi luoghi soprattutto occasioni di divertimento, e non necessariamente lo shopping. E questo vale anche per chi ha mezzi economici: il 23% dei nostri connazionali, secondo le più recenti statistiche Findomestic, non manca delle risorse necessarie, ma ha perso semplicemente il gusto di spendere con una certa facilità e si orienta, per molti beni, dalle auto alle attrezzature per gli sport invernali, più sul noleggio che sull’acquisto. Anzi una percentuale del 30-40% dei nostri connazionali è orientato a prendere in considerazione lo scambio dei merci e servizi piuttosto che l’acquisto tout court.

Non solo. Il centro commerciale dell’immediato futuro è inconcepibile come nucleo isolato. La parola d’ordine è integrazione. Intanto con gli investitori pubblici, con lo Stato e gli Enti locali che non sono più i censori delle inaugurazioni, ma un elemento per armonizzare lo sviluppo edilizio e quello dell’occupazione. Il centro commerciale non può essere una cattedrale fredda e ignara delle componenti umane, geografiche e architettoniche del territorio circostante. Tuttavia la nostra opinione è che su questo amore nascente si debba nutrire tutto lo scetticismo del mondo, dopo decenni di battaglie, interessi contrapposti, operazioni di lobbing.

Obbligato, quasi scontato se non si vuole indossare il paraocchi, è l’appuntamento con le tecnologie. Michael P. Khercheval, world chairman di Icsc (International council of shopping centers), vede la fusione tra shopping, telematica e intrattenimento come una delle più grandi opportunità del settore. “E’ finito il tempo in cui il valore economico era al centro. Si impone il sociale. La food court diventa determinante insieme a tutte le le altre componenti che aprono le strutture commerciali alle vere esigenze delle persone. E le persone vogliono svago e servizi.

“Questa apertura va letta anche come multicanalità, anzi omni-canalità. Per cui lo shopping center non è più uno spazio delimitato da confini precisi, geografici e mentali, ma una sorta di non luogo, costantemente on line. In negozi sono quasi show room dove si valutano i prodotti, si fanno esperienze, si prende contatto con beni e servizi, i quali verranno, forse, comprati in un secondo momento, su Internet”.

Basti pensare che oggi una maggioranza schiacciante delle persone ha con sé uno smartphone e, spesso, anche un tablet, che i prodotti hanno Qr Code che raccontano la loro storia, che le promozioni vengono sdoganate sui terminali personali in modo automatico, attraverso le app. Dunque il confronto concorrenziale non è più un impegnativo esodo da un negozio all’altro, ma avviene già all’interno del punto di vendita, proprio davanti allo scaffale e sotto il naso di addetti e capi reparto.

Caso da manuale quello delle grandi librerie: nel negozio fisico si sfoglia un volume, lo si apprezza, se ne valutano la grafica, la copertina, ci si fa un’idea molto precisa, ma intanto…intanto si utilizzano i programmini dei vendor on line per vedere il prezzo minimo del mercato, per capire se la spedizione a domicilio è gratuita, se lo sconto è superiore al 15%, se l’opera si può trovare usata, se magari non sia meglio un e-book. Democraticamente micidiale. E questo non avviene solo per i semi durevoli, i durevoli e l’abbigliamento, che sono la punta di diamante del fenomeno, ma anche per generi più banali e di prezzo unitario decisamente contenuto. Una perifrasi per dire l’alimentare.

“Il centro commerciale – spiega Pietro Malaspina, presidente di Cncc – va pensato come una piattaforma di affari. Non è, ammesso che lo sia mai stato, una macchina per vendere, anzi in realtà non vende nulla. Sono i retailer che vendono e che utilizzano o perdono le opportunità messe a disposizione dagli shopping center. Capisco che molti sono spaventati davanti a un futuro scioccante, ma questa non può essere una scusa per fare male il proprio mestiere. La realtà va affrontata. Bisogna accettare il fatto che il negozio della nostra gioventù o dei nostri padri è al tramonto. Il produttore viene direttamente sul mercato e non mancano certo gli esempi di grandi marchi dell’alimentare o di prima ignoti terzisti non-food che lanciano catene di monomarca.

“Il retail – conclude il presidente - non è acquisto è intrattenimento, come provano i numerosi casi di fortunata contaminazione fra cultura e cibo: cito solo Red di Feltrinelli. Ma questo non deve fare paura. Anzi deve dare forza a chi è un vero imprenditore. Sono fiducioso quando penso solo a quale formidabile infrastruttura logistica possono rappresentare i negozi fisici, in un mondo che comprerà sempre più spesso su Internet, ma che ha comunque bisogno di ricevere fisicamente le merci e, in parecchi casi. di valutarle, guardarle, toccarle".