Il discorso dei centri commerciali cittadini, legato in buona parte agli inizi di una disaffezione in massa per le grandi cattedrali distributive piazzate alla periferia delle grandi città, è molto sentito in Italia, dove tuttavia permangono difficoltà significative, specialmente di tipo viabilistico e burocratico, che rallentano quello che indubbiamente sarebbe un argomento interessante sia per i promotori, sia per i distributori, sia per il popolo consumatore.

Tanto più che le società che realizzano shopping center sono di spesso di calibro internazionale e dunque non mancherebbe nemmeno il know-how necessario a condurre in porto progetti di un certo rilievo. Ma Regioni e Comuni hanno paura e i piccoli dettaglianti frenano, nel timore di nuove forme di desertificazione: e non hanno tutti i torti, tenuto conto che, nella nostra Penisola, Confcommercio stima che ogni giorno 25 negozi chiudano i battenti, sempre più schiacciati dalla recessione, dalla concorrenza della gdo, ma anche da alcuni provvedimenti abbastanza assurdi decretati dagli stessi enti locali che, talora, con triste ipocrisia, si ergono a custodi degli interessi proprio del piccolo commercio: basti pensare alla creazione, a Milano, della malaugurata “Area C”, che ha praticamente blindato, a partire dal 16 gennaio, la circolazione delle auto in tutta la cintura compresa entro la cosiddetta “Cerchia dei Bastioni”. Se la qualità dell’aria - forse, molto forse - è migliorata, il fatturato dei negozianti ha accusato un contraccolpo notevole.

Ma il discorso dei centri commerciali di città, in altri Paesi, sta avanzando rapidamente. Anche qui, naturalmente, le autorità pongono dei limiti – ma più superabili – e le microimprese fanno resistenza, tuttavia dimostrandosi anche capaci di sfruttare le nuove possibilità di insediamento e di richiamo offerte dai nuovi aggregati distributivi.

Due esempi vengono dalla Francia, dove il mensile “Sites Commerciaux”, molto noto e molto diffuso, ha presentato negli ultimi due numeri, un paio di casi sui quali è bene meditare, sia per i criteri edilizi adottati, altamente compatibili con un concetto di bellezza estetica che deve valere nei centri storici, sia per l’estrema convenienza offerta ai negozi in termini di canoni di ingresso e di affitti, sia per la collaborazione con le autorità locali: tutti fattori che sono riusciti a mettere d’accordo, almeno in parte, bisogni ed esigenze normalmente contrapposti.

La prima case history riguarda Paris-Saint-Lazare, una storica stazione risalente al 1837, che sorge nell’ottavo “arrondissement”, in prossimità dei grandi magazzini Printemps.  Il taglio del nastro è avvenuto il 21 marzo. Qui antico e moderno, dunque architettura e commercio, si sono fusi al meglio, in un fortunato equilibrio che ha saputo rispettare la storia, coniugandola con le esigenze del business.

Lo sviluppo è durato nove anni. La struttura ha tre livelli sotterranei – stazione e commercio, metropolitana e commercio, e parcheggio – e uno al piano terra, dove è presente il cuore della “gare” e dove ricompaiono gli esercizi commerciali. Qui la luce naturale dà al tutto un aspetto abbastanza affascinante, ben lontano da soluzioni artificiali, che risultano talora vagamente allucinanti.

A Saint Lazare, dove passano 150 milioni di viaggiatori all’anno, i 10.000 mq destinati al commercio erano tutti allocati e pronti per il giorno del taglio del nastro, una cosa abbastanza rara. Nel progetto il gestore ferroviario nazionale (Sncf) ha investito 90 milioni mentre Klépierre, che ha in carico la galleria, ne ha messi sul tappeto 160. Le insegne rappresentate sono 80. Citiamone alcune: Esprit, Guess, Lacoste, Kiko, Sephora, Foot Locker, Virgin, Muji, Segafredo Zanetti, Starbuck’s e, per i supermercati, Carrefour City e Monoprix. I settori rappresentati coprono vestiario e accessori, bigiotteria e orologeria, scarpe, cultura-regalistica-divertimento, servizi (ottico, laboratorio di analisi mediche ecc.), ristorazione e food.

Si stima che il giro d’affari dei dettaglianti qui possa raggiungere, sommando la collocazione centrale e l’intenso flusso dovuto alla ferrovia, un 50%, ma anche un 100% in più di quello che si potrebbe ottenere in condizioni “normali”. Insomma, conclude il periodico francese, “una vera gallina dalle uova d’oro”. Oltre a questo la morale che se ne può trarre è che i centri commerciali cittadini devono dare assolutamente un plusvalore, essere unici: in questo caso il vero gol consiste nel matrimonio, lo ripetiamo, fra architettura e business.

Ovviamente non sempre si hanno a disposizione opportunità uniche, come quelle offerte da Saint-Lazare.  A questo punto serve ancora più fantasia, perché gli elementi per fare la differenza vanno costruiti ex novo. Questo è accaduto a Lione, con la monumentale apertura, il 4 aprile, di Confluence, che prende il nome dal nuovo quartiere che la Municipalità locale sta realizzando, come un pendant locale della Defense parigina. Dunque commercio e urbanizzazione anche qui si danno la mano. E anche qui, come nel precedente esempio, il centro commerciale è concepito come luogo di vita, e non di semplice acquisto. L’ambiente penetra a fondo nella struttura: sculture vegetali, un giardino pensile, la presenza di due fiumi, il Rodano e la Saona (che qui si incrociano, una “confluence” appunto). Il centro si può raggiungere con il vaporetto.

Le cifre: 300 milioni di investimenti, 102 negozi, 17 ristoranti, un multisala, 53.000 mq di superficie, 250 milioni di fatturato: attesi entro il terzo anno. Ai commercianti interessati sono stati fatti ponti d’oro: nessun diritto di entrata, nessun canone di locazione prima dell’apertura, un affitto vincolato e destinato a passare nel tempo da 300 a 800 euro al metro quadrato. Il giorno dell’inaugurazione 101 negozi erano già assegnati e 99 hanno alzato la saracinesca, per accogliere 85.000 visitatori, che sono diventati 540.000 nelle due settimane successive.  Anche qui insegne note. Citiamo alla rinfusa: Muji, Starbuck’s, Apple, Hollister (Abercrombie), Zara, Monoprix, Casino, Fiorella Rubino (Miroglio), Go Sport, Kalvin Klein. Anche qui ampio uso della luce naturale. Insomma anche qui molto valore aggiunto, che struttura il commercio come uno spazio aperto sul mondo reale, come un luogo di vita e divertimento.

La morale: non vogliamo fare gli esterofili e dire che i francesi sono più bravi di noi. Non si tratta di una partita di calcio. Si tratta solo di capire quali sono i canoni  da seguire quando si parla di centri commercia di città e, visto che gli esempi esteri non mancano, non sarebbe male farne tesoro.