È uscita la XIV edizione dell’Osservatorio non food di GS1 Italy, lo studio realizzato in collaborazione con TradeLab che, dal 2002, monitora i beni non alimentari.

«Ci siamo concentrati sui numeri e sull’andamento del settore, finalmente positivi, e sul percorso di acquisto compiuto lungo tutti i touchpoint, fisici e digitali - commenta Marco Cuppini, research and communication director di GS1 Italy -. Emerge la consapevolezza che l’idea di una contrapposizione tra i due canali sia troppo schematica e artificiosa. Per il futuro la parola d’ordine sembra essere convivenza».

L’Osservatorio considera oggi acquisti per un totale di 101 miliardi, evidenziando un trend 2015 pari al +1,4 per cento.

«Negli ultimi 5 anni gli italiani si sono fermati, spaventati da una crisi che non passava mai e da profonde riflessioni sul proprio stile di vita - prosegue Cuppini –. Ma dopo un lustro qualcosa sta cambiando”.

Anche durante il 2015 la rete moderna specializzata ha continuato a contrarsi: si è assistito a una razionalizzazione del numero di esercizi non food sul territorio, sebbene in modo meno accentuato: oggi si parla di circa 4.000 Pdv in meno, con un bilancio, tra aperture e chiusure, nel 2015, pari al -0,8 per cento. Particolarmente penalizzati edicole, negozi di libri e cancelleria (-2,4%), tessili e biancheria per la casa (-2,3%). Per contro, si registra un incremento per i rivenditori di elettronica, informatica e telefonia (+1,9).

Sul concetto di una continuità tra fisico e digitale è intervenuta anche Nielsen con il global survey ‘Retail Growth Strategies’, eseguito su un campione di 30.000 individui, distribuiti in 61 Paesi, tra i quali, il nostro.

Il 29% degli italiani vorrebbe usufruire di servizi postali quando fa la spesa al super, ma non ne ha la possibilità, il 27% di una farmacia, il 25% del benzinaio. L’ampliamento dello spettro di esigenze relativo ai servizi – spiega Giovanni Fantasia, amministratore delegato di Nielsen Italia – è un fenomeno che va interpretato alla luce della trasformazione radicale che sta investendo il mondo della Gdo. Ciò è ascrivibile all’impatto della Rete sulla compagine dei produttori e dei retailer”.

Rimangono ancora ampi margini per rendere quella del supermercato un’esperienza ancora più personalizzata e più funzionale. Infatti il 55% è dell’idea che i distributori dovrebbero intercettare in forma più puntuale le esigenze del singolo e, nello stesso tempo, il Pdv dovrebbe adattare meglio, alle esigenze del pubblico, l’attività della comunicazione relativa a servizi e prodotti offerti (58 per cento).

Si aggiungono le valutazioni di Iri: nel 2015 gli acquisti di beni di largo consumo confezionati erano ritornati a crescere, anche se il tendenziale, negli ultimi due quadrimestri, ha espresso tutta l'incertezza e la debolezza della ripresa, con un differenziale di 1 punto. I prossimi mesi del 2016 dovrebbero indicare un andamento positivo, anche se più moderato rispetto all'anno precedente.

“La fragilità – spiega Iri - non è motivata solo dai fondamentali dell'economia, come lavoro e produzione, ma anche da elementi che intaccano la fiducia: la crisi delle banche, la scarsa confidenza nell’operato delle istituzioni, gli eventi legati alla sicurezza delle persone, come gli attentati di Francia e Belgio. Le prospettive sono perciò influenzate dalle cronache internazionali”.

E per parlare di cronache internazionali inquietanti come non citare la Brexit, quale possibile elemento di destabilizzazione? Lo sottolinea, fra i primi, Giovanni Cobolli Gigli, presidente di Federdistribuzione, che paventa effetti negativi sui comportamenti d’acquisto e dunque sui consumi, legati all’inevitabile situazione di incertezza e volatilità dei mercati che si potrebbe generare.

Anche Luigi Scordamaglia, presidente di Federalimentare, intervistato da ‘Il Giornale’, non ha la mano leggera: "Gli inglesi – spiega - non dovrebbero dimenticare di essere importatori netti di commodities agricole. Ne acquistano per un valore di oltre 17 miliardi all'anno, con un vero e proprio deficit strutturale, che si aggraverà a causa di una sterlina destinata ad arrivare ai minimi”.

“Nessuno – continua - sottovaluta le possibili ripercussioni economiche negative. Per fortuna, in questo clima di incertezza, l'export agroalimentare italiano verso il Regno Unito continuerà a crescere e anche la politica agricola europea non potrà che rafforzarsi”.

Meno confortante la posizione di Prometeia. Lo riporta l’agenzia Ansa: “Per la prima volta da 40 anni ci potrebbero essere dazi sul mercato britannico. Questi ultimi rischiano di valere più del 5% del valore esportato: 22,5 miliardi di euro nel 2015 secondo Istat. Immaginando che se ne facciano interamente carico le aziende italiane, la Brexit promette di costare 1,12 miliardi di euro, una cifra pari allo 0,25% dell'export italiano nel mondo”. Il solo food, secondo l’istituto, rischia di perdere 450 milioni di euro.