Domenica di shopping o, al contrario, di saracinesche abbassate? Il dibattito separa il Paese a tutti i livelli. Grande distribuzione contro piccolo commercio, maggioranza contro opposizione, per non parlare dei punti di vista personali.

Ma come la pensano davvero gli italiani? Se lo è chiesto Noto Sondaggi, che il 10 settembre ha condotto una ricerca, con tecnica Cawi e in tempo reale, su un campione di 1.000 persone (88% di rispondenti) rappresentativo della popolazione maggiorenne.

Il 56% è favorevole al mantenimento dello statu quo, mentre un 33% vorrebbe ritornare al passato. Quello che stupisce è che un 62% abbia riconosciuto di aver fatto acquisti festivi, dato che rivela che molti si comportano in modo non lineare. E infatti anche il 57% dei contrari ha approfittato di questa opportunità almeno una volta.

Per le merceologie la larga maggioranza dei consensi, in uno schema a risposte multiple, va alla spesa alimentare (64%), seguita, con il 42% dai prodotti elettronici e tecnologici, dall’abbigliamento e accessori (32%) e dagli articoli per la casa (27%).

Non è tutto. I nostri connazionali ritengono, in 54 casi su 100, che, in caso di chiusura domenicale, faranno meno acquisti, rispetto a un 42% che non intende cambiare nulla nelle proprie consuetudini. In sostanza si avrà una perdita di fatturato, diversamente da quanto vorrebbe l’Esecutivo.

A confermare uno scenario in cui le ombre prevalgono è Daniele Tirelli, sociologo e presidente di Retail Institute, che ha parlato a Milano il 12 settembre, durante il Salone Carrefour. “Il nostro calendario prevede 64 giorni festivi, sommando alle domeniche le ricorrenze civili e religiose. Ciò vuol dire il 18% dell’impegno lavorativo totale, un impegno che potrebbe anche essere riassorbito attraverso forme di lavoro temporaneo, cosa che però la futura legge non consente. Se pensiamo poi all’indotto, cito solo la vigilanza privata che opera nella Gdo, ci rendiamo conto che l’onda si amplificherà in termini di reddito”.

Secondo il sociologo fare credere alla gente che il problema sia limitato a 8.000 fra supermercati e ipermercati e a un migliaio di centri commerciali è, dunque, un’informazione scorretta.

Aggiungiamo a tutto questo la ricaduta sulle aree ristorative degli shopping center, dal momento che i pubblici esercizi cittadini la faranno franca. Secondo un’analisi di Npd la serrata costerà parecchio, visto che le food court muovono in Italia qualcosa come 6,3 miliardi di euro, con un tasso di crescita a doppia cifra nell’anno terminante a giugno 2018.

La spesa degli italiani presso bar e ristoranti situati dentro i centri commerciali vale l’11% della somma totale destinata al fuori casa. In particolare il 15% degli esborsi per pranzi, cene e spuntini nei centri commerciali è dovuto alla domenica, per un dato complessivo di 940 milioni di euro all'anno.

“La ristorazione degli shopping center – spiega Matteo Figura, direttore Foodservice di Npd Italia - è caratterizzata da una forte presenza di insegne. Mentre, a totale Italia, i marchi accolgono il 27% delle visite, nei centri commerciali questa percentuale schizza al 70%” e le catene, nazionali e straniere, sono la parte più in salute del mercato, nonché quella con la maggiore capacità di investimento.

"La ristorazione, negli ultimi anni, ha sofferto non solo per la crisi economica, ma anche per nuovi stili di vita che inibiscono i consumi fuori casa – continua Figura -. Gli acquisti online, il telelavoro, la pay TV e tutte le attività che svolgiamo fra le mura domestiche si traducono in minori occasioni per la ristorazione stessa, che, al contrario, riceve un grande beneficio dai centri commerciali”.

Gravi anche i problemi delle catene non food, come spiega ancora Tirelli: “Consideriamo che il retail non alimentare trova, proprio nei giorni festivi, il suo momento migliore. Arredamento, abiti, borse e accessori, brico, elettronica, casalinghi e arredamento, se acquistati di domenica offrono al consumatore un indiscutibile risparmio di tempo. Non possiamo pensare che il commercio si riduca solo al mordi e fuggi del discount”.

Inoltre come stabilire correttamente cosa è di interesse turistico, e dunque esentato dal blackout, è cosa non lo è? “Da noi – prosegue Tirelli - quasi ogni Comune ha una propria chiesa, un proprio monumento, o, comunque un polo di interesse culturale”

Pensiamo, poi, che una larga parte delle nostre spese avviene in una logica di impulso e, quando si perde questo vantaggio si spreca un’occasione in modo definitivo. “Chi non acquista oggi un certo articolo – osserva il sociologo – molto difficilmente lo acquisterà il giorno successivo. Detto in parole semplici chi non mangia una pizza al centro commerciale, non ritornerà certo il giorno dopo, per soddisfare il proprio desiderio. Il fatto è che le nuove idee vanno calate nella vita di tutti i giorni, nella quotidianità. E poi, volendo concludere con una battuta, se nei festivi dovessimo dedicarci solo alla religione e ai parenti stretti dovremmo, a rigore, instaurare un blocco televisivo e spostare le partite di calcio al sabato, perché sono elementi che portano divisioni in famiglia”.

Conclude Giorgio Santambrogio, presidente di Adm e amministratore delegato di Gruppo Végé: “Il vero imprenditore del commercio, quello che accoglie la famiglia in negozio, vuole lavorare di domenica. Ai discounter, che giocano tutto sul prezzo non interessano i festivi, perché non danno importanza all’empatia, alla socializzazione, all’accoglienza. E infine ci sono più di 48 categorie e oltre 1 milione e mezzo di persone che lavorano alla domenica”. A questo punto non si vede perché proprio la distribuzione dovrebbe rinunciare.