Mentre il Ceta, l’accordo di libero scambio Italia-Canada, viene congelato sine die, almeno per le parti di competenza nazionale, alla conferenza dei capigruppo del Senato, esasperando i timori suscitati dalla politica ‘America first’ del presidente Donald Trump, Nomisma e Crif, attraverso Agrifood Monitor, approfondiscono il potenziale del made in Italy nell’area americana.

Dalle cifre risulta, anche se la fonte non lo dice, che sarebbe più o meno un autogol ostacolare ulteriori forme di collaborazione, ostacolare visto che poi il trattato, per la porzione, prevalente, che spetta all’Ue, di fatto è in vigore, in via provvisoria, dal 21 settembre.

Dopo la Germania, il Nord America (Usa + Canada) rappresenta la seconda destinazione del nostro export agroalimentare, con un valore che nel 2016 ha superato i 4,6 miliardi di euro, pari al 12% del totale.

Anche nei primi 7 mesi di quest'anno le vendite italiane di food&beverage negli Usa sono aumentate di oltre il 7%, ma da dall’indagine Agrifood Monitor sui consumatori (statunitensi e canadesi) emergono ulteriori margini di crescita, in virtù di un'ottima reputazione e di un posizionamento di qualità di cui godono le nostre produzioni. Margini che potrebbero salire – ma anche qui i ricercatori giustamente non si pronunciano - se il Ttip (il trattato di libero scambio Ue-Stati Uniti) non fosse a un punto morto.

Con un valore superiore ai 130 miliardi di euro, gli Stati Uniti, da soli, rappresentano, infatti, il primo mercato al mondo per import di prodotti agroalimentari.
Redditi medi pro-capite compresi tra i 42.000 e i 57.000 dollari annui - contro i 31.000 di quelli italiani - previsti ulteriormente in crescita di oltre il 14% nei prossimi 5 anni, fanno del Nord America uno dei mercati più importanti per le esportazioni agroalimentari, dove oggi la nostra quota, misurata sull'import del Paese, è ancora marginale (3,4% negli Usa, 2,6% in Canada).

I prodotti tipici del "Made in Italy" alimentare rappresentano la principale componente dell'export verso questi due Paesi: vino, olio d'oliva, formaggi e pasta pesano per circa il 65% sulle esportazioni agroalimentari complessive e contribuiscono in primis a una bilancia commerciale positiva che, considerata congiuntamente (Usa+Canada) presenta un saldo di 3,2 miliardi di euro.

"La domanda di food&beverage italiano è ancora fortemente concentrata negli Stati costieri degli Usa, che presentano i maggiori consumi pro-capite, mentre il Made in Italy risulta poco diffuso nel Mid-West e nelle altre zone centrali del Paese”, puntualizza Andrea Goldstein, chief economist di Nomisma.

Elevato il tasso di penetrazione dei prodotti italiani, pari a circa l'80% per entrambe le popolazioni dei due mercati. In tale ambito, oltre il 10% dei consumatori può essere definito un "authentic user", vale a dire una persona in grado di indicare brand di aziende italiane e che consuma prodotti del Made in Italy anche tra le mura domestiche, dicendosi disposto a spendere di più per un prodotto del Belpaese.

"La survey ci ha permesso di definire l'identikit dell'authentic user di prodotti alimentari italiani – commenta Denis Pantini, responsabile dell'Area agroalimentare di Nomisma -. Nel caso degli Usa, si tratta di un consumatore con reddito familiare alto, che vive a New York, di età compresa fra 36 e 51 anni, con alto livello di istruzione e che segue corsi e programmi TV di cucina". Simile l'authentic user del Canada: "Si connota sempre per un reddito familiare alto, ma ha un’età media più elevata rispetto al ‘collega’ americano (tra 52 e 65 anni). Utilizza Internet per informarsi sui prodotti alimentari e segue anch’egli programmi televisivi dedicati alla cucina".