Nel 2012 l’acquisizione di Lat Bri e la partnership siglata con la società Ferruccio Podda, finalizzata all’esportazione di formaggi Dop. Poco più di un anno fa l’acquisizione del gruppo caseario francese Cipf Codipal, operatore francese attivo nella produzione e distribuzione di formaggi freschi e stagionati. Più recentemente la costituzione di Granarolo Uk, società controllata da Granarolo International, per l’esportazione di formaggi italiani nel Regno Unito e in Irlanda. Il percorso verso lo sviluppo del made in Italy agroalimentare all’estero da parte di quello che rappresenta oggi il maggior operatore agro-industriale del Paese a capitale italiano sta assumendo sempre maggiore concretezza. Una strategia di internazionalizzazione di cui abbiamo parlato con il presidente del Gruppo Granarolo Gianpiero Calzolari.



Il recente ingresso sui mercati inglese ed irlandese come si inserisce nell’ambito dei piani di sviluppo internazionali di Granarolo?
Abbiamo assunto la determinazione di sviluppare una quota significativa del nostro fatturato all’estero già da tempo. Il 2013, che si può considerare l’anno nero dei consumi in Italia, conferma la validità di questa scelta e in qualche modo ci sollecita a procedere ancora più spediti in direzione di un ulteriore consolidamento della nostra presenza nei mercati extra domestici. Siamo infatti partiti un paio d’anni fa con una quota export inferiore al 3 per cento. Abbiamo chiuso l’anno scorso intorno al 16. Nei prossimi due anni contiamo di superare la soglia del 30 per cento.



Un obiettivo ambizioso…
Il mercato italiano, del resto, risulta in pesante flessione. Certo, pesa la situazione economica congiunturale. Ma riteniamo sia anche l’effetto di un cambiamento di cultura, di nuove abitudini alimentari, in particolare per quanto riguarda il latte. Molto meglio quindi cercare mercati meno depressi, meno saturi, dove la nostra offerta e capacità organizzativa possa vincere una battaglia competitiva a partire dal fatto che il mondo guarda con molto interesse al made in Italy.



Ma questa scelta non confligge in qualche modo con la vostra tradizionale presenza nel mercato dei prodotti freschissimi?
In parte questo è vero. Abbiamo bisogno - e sarà un po’ l’oggetto delle nostre future acquisizioni o partnership con altre realtà - di spostare l’asse produttivo su prodotti a vita più lunga, quindi formaggi duri piuttosto che paste pressate. Ciò significa che dovremo prestare molta più attenzione alle filiere dei tipici, che peraltro rappresentano il miglior biglietto da visita quando ci presentiamo all’estero. Relativamente agli altri prodotti più freschi, più vicini a quella che è sempre stata la nostra tradizione produttiva, la carta che possiamo giocare, per esempio nei mercati asiatici, è quella della sicurezza alimentare. C’è una parte del mondo che sta modificando le proprie abitudini alimentari e le proprie esigenze e che però incontra grossi problemi per quanto riguarda la qualità delle proprie produzioni. Non c’è dubbio che l’Italia, e più in generale l’Europa, sia da questo punto di vista all’avanguardia. Penso, per essere più concreto, all’opportunità che può rappresentare il mercato del latte UHT nei paesi asiatici.

Quali saranno le modalità con cui opererete?

Sicuramente, nei mesi e negli anni a venire, dovremo qualificare la nostra produzione industriale con strutture in grado di produrre e confezionare prodotti a vita lunga per l’estero. In alcuni paesi tenderemo a privilegiare il rapporto con strutture da noi controllate o partecipate, anche se la soluzione di appoggiarci a dei distributori locali rimarrà un’opzione valida. Soprattutto, cercheremo di affermare il nostro marchio e la nostra filiera. L’operazione che ci ha visti sbarcare in Inghilterra e in Irlanda va proprio in questa direzione, privilegiare cioè un rapporto diretto con i mercati di riferimento, così come è avvenuto, nel recente passato, in Francia e in Spagna.

A livello europeo quali sono i mercati su cui intendete concentrarvi maggiormente?

Se parliamo di prodotti caseari e di lattiero-caseari in particolare, la Francia è il più importante per vari motivi. A seguire vi sono la Germania e l’Inghilterra. In generale, seguiamo una duplice strategia. Intervenire sui mercati europei che sono per loro natura più predisposti ai prodotti italiani, anche se già presidiati da competitor vari, locali, multinazionali ecc. E in questo caso puntiamo a collaborazioni o acquisizioni. Oppure puntare su mercati più lontani, più interessanti ma anche più complicati. Un esempio emblematico è la Cina, un mercato enorme, dove l’Italia è presente in misura assolutamente residuale, e dove non saremmo costretti a competere con i nostri colleghi italiani ma dovremmo affrontare enormi difficoltà logistiche e organizzative. Sono due strategie diverse. La Russia rappresenta una situazione intermedia. Là siamo già conosciuti, come gran parte degli operatori italiani, attraverso distributori.



Nei vostri progetti di espansione all’estero vi state muovendo da soli o beneficiate di qualche supporto a livello governativo?
Abbiamo aperto una relazione importante con il Mipaaf e con l’Ice. L’interesse è reciproco: sia per noi, ma attraverso di noi anche per il sistema paese. Perché un’azienda delle nostre dimensioni, che si muove sui mercati, può produrre effetti paese interessanti. Siamo consapevoli di essere discretamente grandi in casa nostra ma di essere dei nani quando ci muoviamo sui mercati lontani. Abbiamo anche questo tipo di responsabilità, una condizione che sta aprendo delle interessanti relazioni con chi istituzionalmente si deve occupare della promozione dell’Italia nel mondo, fatto quest’ultimo che è un po’ un nostro limite.

Fa riferimento al fatto di non essere in grado di fare squadra?

Anche. Come Paese abbiamo un giacimento di produzione di assoluta qualità e per di più riconosciuta e copiata. Infatti, quando andiamo in quei mercati i nostri prodotti non li troviamo e magari ne troviamo delle imitazioni. Il problema si vince, quando si vince, con delle cause per contraffazione. Ma si vincerebbe molto meglio occupando noi per primi quegli spazi. Per tanti produttori di nicchia ovviamente questo è più difficile di quanto possa fare un’azienda di dimensioni significative. Questo si traduce per noi in un’ulteriore opportunità, in un’occasione da cogliere.



Parliamo anche di qualche numero. La vostra ambizione è di raddoppiare sostanzialmente l’incidenza export nel giro di un paio d’anni. Tutto questo, dal punto di vista degli investimenti e della crescita del fatturato, cosa comporterà?
Come Gruppo Granarolo chiuderemo il 2013 intorno al miliardo di euro, quindi se ragionassimo ai valori attuali il 30 per cento di export significherebbe circa 300 milioni di euro. Ma siamo anche impegnati ad aumentare la massa e non solo a sostituire vendite domestiche con quelle realizzate sui mercati esteri. Il mercato nazionale è un mercato che noi stiamo presidiando con grande attenzione, anche se in calo.



Esattamente, cosa intende dire?
Che seguiamo attentamente le trasformazioni dei consumi in atto e che opereremo di conseguenza. Un caso emblematico è dato dal latte liquido, alimentare, non trasformato. Sicuramente c’è una modifica delle abitudini di consumo e anche della composizione familiare che incide sui volumi di vendita. L’Italia consuma il latte o come ingrediente, ad esempio nel cappuccino piuttosto che in cucina, o come tale nell’occasione della colazione. Difficilmente un italiano beve un bicchiere di latte nel corso della giornata, diversamente da quanto accade in Europa centrale o del nord. Siamo invece importanti consumatori di latte trasformato. Inoltre si stanno trasformando le abitudini di consumo relative alla colazione, con una progressiva riduzione di coloro che la fanno prima di uscire di casa. Una tendenza che, indipendentemente dalla crisi economica, non permetterà di recuperare interamente i volumi perduti in questi anni. Ecco perché stiamo lavorando anche per sfruttare qualsiasi opportunità si presenti sul mercato nazionale. Dove individuiamo possibilità di acquisire delle realtà che abbiano buone potenzialità nei mercati nazionali non le disdegniamo.

Avete già messo gli occhi in particolare su qualcuno?

Nel 2013 - e probabilmente anche per tutto il 2014 - per il nostro settore, con la sola eccezione delle filiere del Grana e del Parmigiano Reggiano, dove le cose sono andate bene, si è verificata una congiuntura tremenda: aumento della materia prima, riduzione dei consumi... Questo ha finito per mettere sul mercato diversi operatori. Alcuni di questi sono interessanti, altri sicuramente lo sono meno. Noi ne stiamo guardando alcuni.



Torniamo alle vostre ambizioni di internazionalizzazione. Il recente accordo con Delta Foods per la distribuzione del loro yogurt greco in Italia va in questa direzione?
Si tratta di un’operazione tattica. Lo yogurt greco sta incontrando la simpatia e l’interesse dei consumatori italiani e, nonostante numeri assoluti molto contenuti, registra tassi di crescita significativi. Abbiamo pertanto deciso di inserire nel nostro paniere una tale offerta e ci è sembrato giusto vendere un prodotto che fosse autenticamente greco. Da qui la necessità di individuare un’azienda importante di quel paese che abbiamo individuato in Delta Foods. Per il momento, questi sono gli accordi. Poi è chiaro che, considerando le importanti dimensioni di questa realtà leader nel mercato greco, non precludiamo nulla…


Stefania Lorusso