Il 5 dicembre l’Antitrust annuncia la sua prima istruttoria – conclusione a marzo 2015 - in materia di relazioni commerciali tra operatori della filiera agro-alimentare. Nel mirino finisce il gigante dei discount Eurospin, che vanta una rete di circa un migliaio di punti di vendita, un fatturato intorno ai 3,9 miliardi di euro e un utile netto leggermente superiore ai 150 milioni.

Le osservazioni dell’Agcm riguardano, dal punto di vista legislativo, la possibile violazione dell’art. 62 del D.L. 1/2012, il cosiddetto Decreto liberalizzazioni, e delle disposizioni del relativo decreto di attuazione, norme, che vietano, in presenza di uno squilibrio di potere commerciale tra le parti che hanno un rapporto di fornitura di prodotti agroalimentari, al contraente più forte di imporre alla controparte negoziale condizioni non eque.

“L’Autorità garante della concorrenza e del mercato – si legge nella nota ufficiale - ha ritenuto che la posizione di primato del gruppo Eurospin sul mercato della grande distribuzione organizzata nel canale discount (per numero di punti vendita, fatturato e fedeltà dei clienti) comporti per la holding Eurospin Italia la possibilità di esercitare una forte pressione commerciale nei confronti dei produttori agricoli e alimentari, parti deboli del rapporto, in sede di negoziazione, conclusione ed esecuzione dei contratti di fornitura.

“L’istruttoria riguarda, in particolare, la presunta condotta di Eurospin Italia consistente nell’avere imposto ai propri fornitori il versamento semestrale di due contributi economici ingiustificatamente gravosi, in quanto non rispondenti ad alcun servizio prestato dal gruppo in loro favore”.

Chi a vario titolo frequenta da tempo il settore, anche come semplice osservatore, non può certo dire di non avere già sentito parlare di simili pratiche e, del resto, come vedremo, la stessa Authority ha analizzato il problema, fin da quando, ha condotto e poi reso nota, il 13 agosto 2013, la propria “Indagine conoscitiva sul settore della Gdo”, un “tomo” di 213 pagine, liberamente disponibile su Internet, nel quale vengono analizzate a fondo le “concentrazioni verticali” gdo-fornitori.

Tutto questo non vuole dire che un intero settore, quello della grande distribuzione organizzata, debba essere messo sotto accusa per quelle che, allo stato attuale, sono soltanto contestazioni a un operatore e analisi di settore. Significa semplicemente che il problema è noto. Eppure nessun commento sulla vicenda, almeno finora, è arrivato, né dalle maggiori associazioni degli industriali, né da quelle dei distributori. Può darsi che succeda, ma non è ancora successo.

In Italia il problema dei rapporti di forza è più che mai sentito, anche per motivi che riguardano da un lato la crescente concentrazione della distribuzione – in un paio di mesi gli annunci di nuove partnership negli acquisti si sono avvicendati in maniera incessante – e dall’altro la polverizzazione della struttura economica.

Come ha ricordato lo stesso presidente dell’Agcm, Giovanni Pitruzzella, intervenendo il 3 dicembre al convegno su “Qualità delle regole e competitività delle Pmi”, organizzato presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, “se è vero che la concorrenza favorisce la crescita economica, le piccole e medie imprese sono quelle che soffrono di più la mancanza di una regolazione”.

L’Italia, come ha ricordato il Garante della concorrenza e del mercato, conta un numero di microimprese notevolmente superiore alla media europea. Nel 2013, ne sono nate più di 384.000, contro le 371.000 che hanno interrotto l’attività, con un saldo attivo di 13.000 aziende.

Questo, ancora un volta, non vuol dire che i fornitori siano per forza dei “nani alla corte dei giganti”, anzi in certi casi potrebbe essere il contrario, – quasi superfluo ricordare che, anche sul nostro mercato, operano multinazionali e grandi imprese produttive italiane e straniere e che non tutti gli operatori della Gdo sono per forza dei colossi –, ma significa soltanto che molti rapporti di forza, da noi più che altrove, rischiano di presentarsi come squilibrati e vanno dunque tenuti sotto stretta osservazione.

E questo è, esattamente, uno dei compiti dell’Antitrust che, come già detto, quasi un anno e mezzo fa, ha spiegato a chiare lettere, fra le altre cose, il concetto di “buyer power”. La seconda parte dell’” Indagine conoscitiva”, cita la definizione dell’American Antitrust Institute. Il buyer power è “l’abilità di un acquirente di ridurre il prezzo da pagare a un fornitore, o di indurlo a offrire condizioni non di prezzo più favorevoli”.

“Il buyer power – si legge ancora - può essere utilizzato non solo per ottenere condizioni economiche di acquisto più vantaggiose, ma anche per imporre una variegata serie di condizioni e condotte solo indirettamente collegate alla contrattazione degli acquisti.

“Ci si riferisce in particolare ai contributi richiesti per prestazioni formalmente slegate dalla negoziazione del prezzo di cessione (il cosiddetto “trade spending"), ovvero alle clausole non di prezzo (termini di pagamento, condizioni di consegna, possibilità di modificare unilateralmente e retroattivamente le condizioni contrattuali ecc.)”.

Ovviamente l’analisi dell’Antitrust scende molto in profondità, sia dal punto di vista della teoria che della pratica concorrenziale ed economica, non dimenticando gli eventuali risvolti – talora anche positivi – dei rapporti cliente-fornitore.

Per forza di cose una riflessione come questa deve limitarsi a brevi stralci, che però confermano, se ce ne fosse bisogno, che il problema è sotto la lente, specie per quanto riguarda alcune possibili conseguenze inquietanti, come “l’ingiustificata interruzione di un rapporto di fornitura (de-listing), ovvero il rifiuto di intraprendere un rapporto di fornitura”, oppure come “le condotte volte ad accentuare lo squilibrio contrattuale con le imprese fornitrici, riducendone le capacità finanziarie e di programmazione gestionale, dal ritardo nei pagamenti, all’assenza di contratti scritti “.